Medusa nel tempio di Atena: la violenza sessuale come rovesciamento della colpa
Anche la più agile delle penne avrebbe difficoltà, nel trattare determinati temi, a non inciampare sul cogolo del luogo comune e cadere di conseguenza nel baratro del già detto. La complessità del trattare della sofferenza nasce dalla sua contrapposizione all’agevolezza del discutere su ciò che è bello. Là dove il bene ci lascia senza parole, concorderemo tutti su quelle semplici parole di circostanza che sono spesso chiamate in causa di fronte al bello, saremo tutti d’accordo sul fatto che il bello è complessamente semplice da descrivere, poiché già godendo del suo status di bello renderà le parole superflue, e di conseguenza tutte valide. Ma il male non lascia questa libertà d’interpretazione, no, perché per comprendere il male è necessario viverlo sulle proprie membra. Tentare di definire un male che non si ha vissuto porta la maggioranza a minimizzarlo, orienta verso un tentativo di accostarlo ad un male già provato, nella presunzione che ogni dolore possa in qualche modo essere ricondotto ad un altro. Servendoci d’analogie riteniamo di poter comprendere tutto della sfera emotiva di chi ha sofferto, poiché essendo il sentire proprietà di tutti riteniamo che non sia necessario uno studio o una consapevolezza più profonda per parlarne. E così lasciamo che a descrivere il male non siano le sue vittime, ma gli esterni giudici del dolore o, peggio, i carnefici.
Medusa nel tempio di Atena
Nelle Metamorfosi di Ovidio è possibile trovare una versione del mito di Medusa probabilmente sconosciuta ai più, e sicuramente meno ricorrente nelle iconografie e nelle varie rese di tale storia. Prima d’essere tramutata in una gorgone Medusa era una donna dalla straordinaria bellezza, la quale non mancò d’arrivare all’interesse d’un annoiato Poseidone.
Il Dio, invaghitosi della fanciulla, prese con la forza che un Dio può pretendere su un mortale quant’egli riteneva che lei potesse offrire, violentandola nel tempio di Atena ove era solita pregare.
Atena, inorridita dalla mostruosità compiuta all’interno d’un luogo sacro a lei dedicato, decise di punire Medusa trasformandola per contrappasso in un mostro, e ponendola di fatto sul triste tragitto che l’avrebbe un giorno condotta da Perseo.
In un capovolgimento di colpe colei che ha sopportato una terribile pena è di fatto stata punita. Nella parità che rende indistinguibile il valore di due Dei, ad aver meritato comprensione è stato il pari, non il ritenuto inferiore. Ma sulla terra, così lontana dall’Olimpo, non ci sono divinità, e se ci sono allora ogni singolo essere vivente vive di tale matrice divina.
Il capovolgimento della colpa
Non è empiricamente possibile contraddire un qualcuno che afferma che la violenza sessuale affligge quasi prevalentemente la realtà femminile, e non è in alcun modo possibile negare a colui che si esprime in tale affermazione l’imputazione di tale male ad un contesto sociale che si distacca dai frutti d’un albero del male piantato da tempo ormai immemore.
E per quanto queste parole non manchino d’essere ormai ridondanti e quasi scontate, la resa sociale di tale “noia nell’ascoltarle” non sembra essere d’accordo. Là dove la fierezza dei propri valori di identità inizia a trasformarsi in competizione, una società di uomini sarà sempre portata a sentirsi più vicina, nel bene e nel male, ad altri uomini. Così come un orso fu messo alla gogna e ritenuto meritevole di morte per aver avuto la colpa di difendere il suo territorio, vittima solo di essere orso e non uomo, così questa stessa differenza di non essere uomo, stavolta in senso strettamente genitale, inizia a tramutarsi in un non esser meritevoli di giustizia e comprensione.
La colpa così non diventa di chi ritieni tuo pari, perché se un mio pari commette male allora in qualche modo il mio essere collegato a lui rende malvagio anche me, e di conseguenza sono quasi obbligato a difendere il mio genere, a discapito dell’altro.
Nella difesa d’un genere, seppur colpevole, sono disposto a distogliere lo sguardo da un tributo all’orrore, tentando in modo razionalmente irrazionale di definire possibili colpe attraverso quanto mi è possibile additare come sbagliato, ben protetto dallo scudo d’un buon senso antico che ancora non s’è accorto d’esser vecchio. Ma è davvero ancora necessario far leva su una così scontata parità di genere?
Davvero l’elogio alla diversità rischia di diventare una complessa serie di pro e contro dell’essere? L’inconcepibile distinguo tutt’oggi vivente che si pone tra uomo e donna nella loro stessa umanità rende quello che dovrebbe essere un parallelo sottoinsieme d’un gruppo animale una gerarchica scala d’importanza e dignità sociale, manifesto d’un non superamento di uno scorretto equilibrio naturale ritenuto valido in tempi in cui la schiavitù sembrava solo una mera questione economica. Ma volendosi appellare più che alla società all’umanità che dovrebbe definirci, dovremmo definire tale fenomeno attraverso una ancora più grande mancanza di comprensione del nostro ambiente.
Così abituati a guardare l’esterno dimentichiamo che ognuno possiede un interno, che ognuno vive gioie, serenità, che ognuno fa colazione, chiede un prestito, si sottopone a quotidianità che viste fatte da altri fanno sembrare così strano quando le facciamo noi, accomunandoci in una generalizzazione d’essere che non potevamo immaginare.
Dimentichiamo che le nostre insicurezze e i nostri dolori sono condivisi da altri, che quei trami che ci turbano potrebbero turbare altri, e dimenticando che a render le altre vittime di quei traumi potremmo esser noi.
Dimentichiamo, fondamentalmente, che io sono te, che gli altri siamo noi. Dal nostro punto di vista in prima persona siamo ormai così lontani dal renderci conto che tutti gli altri vedono esattamente come noi, in prima persona.
E il sempre più approvato investimento sulla punizione, anziché sull’educazione, diventa soltanto un modo per lavarsi le mani da una colpa che risiede in noi, come se la castrazione chimica fosse una ammissione di colpa, un voler dire che in effetti non si può risolvere tale male, ma si può solo punirlo.
Ed è allora logico pensare che l’unico modo per allontanare un uomo che ha commesso tale male dal riproporlo è impossibilitarlo fisicamente, perché diventa alieno immaginare che si possa invece convincere l’uomo che tale mostruosità non fa parte delle sue possibilità di genere. Ma che tutto questo sia un male è scontato, e le cose scontate si sa, perdono di valore e di interesse, diventando talmente note da non esser ritenute degne d’ulteriore approfondimento, diventando pensiero generale di chi in generale invece non pensa, ma assimila ed accumula conoscenze di cui non farà mai uso. Ma capovolgere tutto ciò sulla quale si è fondata una società è complesso, e richiede investimenti e accettazione da parte di tutti, persino quelli che godono di tale erronea fondazione, e allora anche i problemi più inaccettabili diventano accettati, perché il cambiamento verso il bene fa parte d’un percorso ancora troppo ripido per chi indossa gli stivali dell’ignoranza.