C’eravamo tanto amati per un anno e forse più
La prima parte di questa farsa politica d’agosto si è conclusa: il premier Conte si è dimesso e siamo così ai titoli di coda del governo gialloverde. E’ già qualcosa.
Insomma, ora possiamo intonare il ritornello di Come Pioveva cantata da Achille Togliani: «C’eravamo tanto amati per un anno e forse più»
Una premessa, a questo punto, è d’obbligo. Quel che è andato in scena ieri al Senato della Repubblica può non piacere e quel che seguirà ancora meno, ma tutto avviene nell’alveo costituzionale di una democrazia parlamentare qual è la nostra. I governi, quindi le alleanze e le maggioranze, nascono e muoiono in ragione delle condizioni politiche e quindi dei numeri in parlamento. Inutile, quindi, scandalizzarsi o stracciarsi le vesti: sono queste le regole della nostra democrazia rappresentativa.
Sgombrato il campo da un equivoco di fondo pesante quanto un macigno, si può poi ragionare di tutto. E in primo luogo esprimere anche giudizi duri e liquidatori sulle scelte compiute dalle varie forze politiche, dei loro voltafaccia, delle retromarce, delle furbate e, in generale, del teatrino per nulla entusiasmante che si è visto in questi giorni e che di sicuro si vedrà in quelli a venire.
Ad ogni modo, ieri è davvero andata in scena “la crisi più pazza del mondo”, come ha titolato il Corriere della Sera on line, e non poche sono le considerazioni a margine che ci vengono spontanee formulare.
La prima, riguarda il premier Giuseppe Conte che, all’improvviso, sembra essere assurto al ruolo di statista, a quanto pare persino per il Pd e la sinistra, che fino ad ieri lo hanno riempito di insulti, il più tenero dei quali è averlo indicato come un burattino nelle mani dei due burattinai Salvini e Di Maio.
A noi sembra che non era un burattino ieri, come non è nemmeno uno statista oggi.
E non lo si può far passare neanche come un politico coraggioso e trasparente oggi che attacca Salvini, accusandolo di aver curato gli interessi personali, di non essere andato in Parlamento a rispondere sul russiagate, di utilizzare in modo deprecabile le effigie religiose nei comizi politici. C’è da chiedersi, ma Salvini era ministro del governo presieduto da Conte o da qualche altro? Insomma, Conte se ne accorge adesso, e prima dov’era?
E ancora, dov’era Conte, perché non è che lo si è sentito per un anno e più, quando il coordinamento dell’attività di governo che compete al Presidente del Consiglio è stato di fatto esercitato dai due suoi vicepremier Salvini e Di Maio? E dov’era quando Salvini convocava al Viminale le parti sociali sottraendogli la competenza al riguardo? E dov’era quando con i decreti sicurezza, in particolare il bis, il primato sulla gestione appunto della sicurezza è passato in tutto e per tutto al Ministero dell’Interno con buona pace di Palazzo Chigi?
E se è indiscutibile che i ministri della Lega dovevano dimettersi immediatamente dopo aver presentato la mozione di sfiducia al governo di cui facevano parte, è altrettanto vero che proprio Conte doveva avere la decenza, o come si dice in modo forbito, la sensibilità istituzionale, di dimettersi quando al Senato i cinque stelle hanno presentato e votato una mozione contro la Tav dopo che il loro premier, vale a dire proprio Conte, aveva dato il via libera ai lavori.
Insomma, che ora i grillini vogliono santificare Conte è comprensibile, essendo la loro unica ancora di salvezza, ma questo non vuol dire che si è al cospetto di un politico di spessore se non addirittura di uno statista. Certo, bisogna riconoscere che poteva fare peggio e tutto sommato se l’è cavata bene considerato che è stato tirato e sballottato a più non posso. Di più, però, non gli si può riconoscere.
La seconda considerazione riguarda il Pd. C’è da chiedersi, ma al Pd di Zingaretti davvero conviene allearsi con i pentastellati? Lasciamo stare quello che si sono detti in questi anni, il fango che si sono gettati addosso senza risparmiarsi alcunché, ma è davvero pensabile che queste due forze politiche possano avere sufficienti cose in comune per formare un nuovo governo. Si obietterà che tra Lega e M5S non è che ci fossero poi tante affinità e pure sono riusciti a stare insieme al governo per un anno e più. Infatti, e si è visto pure come è finita. E anche come è stato elettoralmente salassato il M5S.
Il Pd, inoltre, ha una complicazione di coesione interna che potrebbe risultare devastante in un’alleanza con i cinque stelle. Il problema, perché a volte le risorse si trasformano in grattacapi, si chiama Matteo Renzi, inutile girarci intorno. Un governo con il M5S senza Renzi dentro potrebbe rivelarsi una fortissima preoccupazione per la tenuta dei democrat. In altre parole, Zingaretti può correre il rischio di lasciare politicamente con le mani libere Renzi, il quale non ha escluso ma solo rinviato l’eventualità di una scissione? Al contrario, elezioni anticipate ad ottobre consentirebbero a Zingaretti di avere non solo un discreto successo elettorale, ma soprattutto mettere in sicurezza il Pd da eventuali colpi di testa di Renzi, al momento padrone dei gruppi parlamentari.
L’ultima annotazione riguarda Matteo Salvini, il quale, inutile negarlo, da questa crisi esce politicamente sconfitto, indebolito e ridimensionato. Attenzione, però, a darlo per finito o anche solo in difficoltà nella Lega, che resta un partito sostanzialmente granitico con un’organizzazione rigorosamente leninista.
La verità è che Salvini anche ieri, in Senato, parlava a chi stava fuori dall’aula, mentre gli altri parlavano a chi c’era in quell’aula. Questo per dire che Salvini ha sì sbagliato i calcoli pensando che i voti e il consenso goduto nel Paese gli dessero nel Parlamento una forza maggiore di quella che ha, ovvero meno del 18% ottenuto alle politiche del 2018, ma che la sua forza è nelle piazze, tra la gente, e che al momento non sembra affatto scalfita. Il M5S e il Pd, invece, rischiano di fare lo stesso errore ma a rovescio, ovvero sbagliano i calcoli credendo che la maggioranza in Parlamento possa poi trasformarsi in una forza elettorale di pari valore.
In altre parole, costituire un governo giallorosso significa sì avere potere, ma anche la responsabilità innanzi tutto di una manovra finanziaria che accontenti in primo luogo l’Europa, sperando che non ci massacri, e di dare risposte in termini di crescita e sviluppo economico. E’ una scommessa pesante, insomma, anche in ragione del fatto che quel che valeva una volta, l’andreottiana massima “il potere logora chi non ce l’ha”, forse adesso lascia il tempo che trova.
A Salvini, infatti, molto probabilmente basterà sedersi sul greto del fiume e aspettare.
In conclusione, è assai probabile che un nuovo governo si riuscirà a mettere in piedi, ma se non ci sono le condizioni per un qualcosa di veramente valido e duraturo (e la cosa è abbastanza difficile da ottenere), meglio per il Pd, e non solo per la Lega, andare a votare subito.
Il primo a saperlo è proprio il Presidente della Repubblica.