Recentemente il leader di un partito nazionale, per mobilitare i suoi, ha dichiarato con piglio deciso: “Prendiamoci l’Italia!”. Un lapsus freudiano? Un partito italiano che non dice a se stesso ‘mettiamoci a disposizione dell’Italia’, ma ‘prendiamocela’ è fin troppo eloquente. Lo scopo dell’azione politica di questo partito non sarà dunque il servizio per i cittadini, o il perseguimento di un progetto sociale o civile per il Paese, bensì la mera presa del potere. Sarà raccapricciante, ma questa è la realtà, finalmente disadorna dalle fumisterie ideologiche. E non riguarda solo quel leader ed il suo partito, di cui volutamente – perché ininfluente ai fini del ragionamento – qui non faccio il nome.
Tuttavia, espressioni del genere sul piano nazionale sono ancora rare; pare che resista quanto meno un minimo senso del pudore politico. Sul terreno locale no, sono ordinarie. Alla vigilia del voto amministrativo, i gruppi dirigenti territoriali dei partiti, vale a dire i cerchi magici dei loro leader locali, si dicono: “Prendiamoci Cava, o Gubbio, o quest’altro Comune”, ovvero, se già li amministrano: “Teniamoci Cava, o Gubbio, etc…”. Lo scopo va al di là del comprensibile compiacimento del successo a cui aspirano i gruppi dirigenti dei partiti.
Ogni Comune, sia pure piccolo, concorre a definire gli asset delle società consortili partecipate e degli organi politici di secondo livello, come le Province, le Comunità Montane e le Unioni dei Comuni. Se il partito tal dei tali ‘si prende’ un Comune, potrà più agevolmente collocarvi i propri dirigenti e/o clienti, ovvero risolvere qualche mal di pancia interno. Con ciò rafforzerà il proprio bacino elettorale, utilissimo per sostenere le ambizioni sovra territoriali dei suoi leader.
Salvo rare eccezioni questo è il principale interesse dei partiti – di tutti i partiti – alla vigilia di un voto amministrativo. Le comunità locali, per parte loro, non avrebbero nulla da guadagnare da tali logiche; se non fosse che, qualora fossero amministrate da un sindaco e da un giunta vicini al leader vincente del momento – nazionale, regionale o provinciale – potrebbero avvantaggiarsi dei suoi favori. È la famosa appartenenza alla filiera vincente, che non raramente fa presa sull’elettorato.
In prossimità delle elezioni amministrative i partiti cercano quindi nei Comuni le personalità giuste, a volte tra i mitici esponenti della ‘società civile’, che, per il loro prestigio o per il loro personale bacino di voti, abbiano la chance di vincere, garantendo in prospettiva ossequiosa subalternità al partito dante causa. I prescelti, per parte loro, oltre al fascino della fascia tricolore sul petto, potranno sperare che la loro vittoria sia per se stessi il primo gradino di una fortunata carriera politica. Mettendo dunque assieme i voti personali del candidato e quelli di partito, si forma la massa critica indispensabile per competere. Insomma, le esigenze dei partiti e le ambizioni dei singoli spesso si incontrano e non di rado, unite, vincono. Sindaci eletti grazie a questo lodo baderanno innanzitutto a non rompere con i partiti dante causa, poi a tessere le fila della propria carriera, infine al bene della propria comunità.
Il ragionamento è qui semplificato ed estremizzato – forse anche provocatorio ed ai confini con l’antipolitica – ma la sostanza è questa.
Diverso è il caso di una comunità che si scelga da sola il proprio sindaco. E di un sindaco che, sospendendo per il periodo del mandato la sua eventuale appartenenza ad un partito, giuri ad essa dedizione esclusiva. Costui, rispettando le istituzioni sovra comunali, a qualsiasi filiera appartengano, si dedicherebbe esclusivamente alla sua comunità; la quale, quale ulteriore beneficio, non soffrirebbe delle guerre tra bande locali di potere, affiliate a questo o a quel leader territoriale intenzionato a ‘prendersi’ la città.
La differenza tra civismo e liste di partito, più o meno camuffate, è questa.