La mozione della compassione: Cecità di Saramago in Rousseau
L’idea di compassione nella filosofia di Rousseau ha un valore pedagogico, uno strumento educativo con la tensione a sviluppare nell’individuo una formazione morale attraverso il provare esperienze che suscitino in lui la capacità di condividere le sofferenze altrui, rendendosi partecipe del suo dolore
Considerazioni sulla compassione analizzata come forza motrice dell’agire secondo bene, attraverso “Cecità” del premio Nobel Josè Saramago, e le analisi sul termine della “simpatia” in Jean-Jaques Rousseau.
Dall’alto della sua razionalità l’uomo è sempre mosso da sensazioni, il quale, seguendo non intenzionalmente questa tendenza, o quantomeno privo di efficacia sul controllo di tali impulsi, spesso tende a sfuggire ad una chiara quanto necessaria definizione di cosa in noi si faccia motore del bene. Tralasceremo in questa sede una sicuramente trita ricerca di definizione del “bene in sè”, rifuggendo ad essa in una tentata spiegazione di cosa muova l’essere uomo tra gli schemi del far bene all’altrui persona, servendoci dell’indiscusso capolavoro di Saramago, “Cecità”, e dell’illuminante pensiero del più noto filosofo di Ginevra.
Cecità
“Ensaio sobre a Cegueira”, ridotto nella sua versione Italiana in “Cecità” nel 1996, è un romanzo di critica sociale dello scrittore Portoghese Josè Saramago, premio nobel per la letteratura, che attraversa l’ormai perduta solidarietà tra gli individui attraverso uno stile di scrittura originale e considerevole, che prevede l’assenza d’una nomenclatura specifica ai personaggi che tratta. In una città, che per l’appunto non viene nominata, una curiosa forma di cecità inizia a prender piede, determinandosi nella sua progressione come vera e propria pandemia, alla quale le autorità tentano di tener fronte attraverso l’internamento dei contagiati in determinati edifici, fornendo loro il necessario sostentamento e costringendoli ad una vera e propria quarantena. L’epidemia non sarà però fermata, e una volta che questa avrà ricoperto l’intera città, i ciechi stessi inizieranno a dividersi in gruppi, combattendosi tra loro e ritrovandosi divisi in due fazioni, una guidata dalla “moglie del medico”, per l’appunto la moglie del dottore che visiterà il “primo malato”, e l’altra dal “capo dei ciechi malvagi”, il quale avvilirà gli altri malati attraverso ricatti e gesti d’inaudita violenza. La vicenda terminerà con la prevalsa della prima, anche grazie all’uccisione da parte della moglie del medico, unico personaggio a non aver mai contratto la malattia, e la successiva guarigione, repentina esattamente come il contagio, di tutti i ciechi. Il tema di quello che può sembrare un romanzo, nel suo stile e nei suoi esiti, assai confusionario, è determinato dallo stesso autore nel mentre dell’assegnazione del premio Nobel, l’incapacità gestionale del bene da parte dell’uomo a causa del suo pessimismo antropologico. Anche di fronte alla possibilità d’una totale restaurazione della società, partendo ex novo e con la possibilità di valori etici assoluti, l’uomo ricadrà, nonostante accomunato ad ogni altro individuo da questa curiosa forma di cecità, ad una assoluta regressione Hobbesiana, facendo d’un motivo che avrebbe potuto unire le parti tutte verso la ricerca d’un bene comune, in questo caso una cura, un disfacimento totale d’ogni valore di giustizia, rendendo ognuno come fautore, a discapito d’ogni altro, del suo bene. Questa circostanza così apocalittica e così pessimista, trovano un immediato riscontro in due situazioni correnti dei giorni nostri, ma tratteremo questo parallelismo a breve.
Jean-Jaques Rousseau
L’idea di compassione nella filosofia di Rousseau ha un valore pedagogico, uno strumento educativo con la tensione a sviluppare nell’individuo una formazione morale attraverso il provare esperienze che suscitino in lui la capacità di condividere le sofferenze altrui, rendendosi partecipe del suo dolore. Il filosofo ritiene che la sfera morale umana sia mossa da compassione e invidia, e che ritrovi giovamento dalla prima, nell’avvalersi delle proprie fortune rispetto alle altrui sfortune. Di fatti tale movenza sfocia, successivamente al giubilo generato in colui che compatisce, in una vera e propria sofferenza per il male d’altri, sofferenza che è direttamente proporzionale alla propria sensibilità. La parte realmente interessante di questo eccelso ragionamento, di cui faremo uso nella conclusione, è la seguente: per poter compatire l’altrui male devo sentirmi totalmente estraneo alla cause dello stesso. Tramite questa brillante intuizione del filosofo di Ginevra, ci è adesso possibile trovare una causa, o quantomeno tentare di trovarla, alla così forte crisi solidale che il mondo vive oggi.
La compassione dei colpevoli
La solidarietà e la compassione, o meglio la loro assenza, trovano nel primo caso una causa “successiva”, nel secondo una causa “consequenziale”. Com’è possibile che in entrambi i casi non si riesca, nonostante su un piano la colpa non sia attribuibile a nessuno, e mentre dall’altra la colpevolezza sia ben chiara, e radicata nell’ignoranza e nella già trattata paura del diverso, a instaurare un vero e pratico, che va al di là dell’influenza mediatica e puramente espressiva, bisogno d’aiuto e d’aiutare? Perché in due frangenti così estremi, tanto forti da unire nel dolore ogni uomo d’ogni realtà, manca una vera e propria compassione di chi in prima persona vive tali sconforti? La risposta ci è offerta, attraverso una molto decisa contestualizzazione del tutto, proprio dall’intuizione di Rousseau. Quello che ci muove, in questo altrui e nostro dolore, non è una compassione dovuta alla nostra assenza di colpe nelle precedentemente citate vicende, in una forma d’aiuto per chi meno è capace d’affrontare l’epidemia aempatica, là dove l’ “a” è privativo, da un lato, e in una forma di mancata assistenza per chi è costretto a sottostare senza alcuna ragione ad altri, subendone i soprusi, bensì alla nostra totale colpa. Non possiamo provare compassione per gli altri proprio perché siamo colpevoli di queste disgrazie, e tale compassione altro non creerebbe in noi una forte colpa, uno sconforto dovuto al male da noi stessi procurato. E in cosa consiste questa colpa? Nell’assenza d’aiuto fornito secondo possibilità e nella totale omertà, perché in condizioni come quelle che stiamo vivendo, non agire, non esprimersi ma limitarsi a capire il male che viviamo, ci fa fautori reali del male stesso, perché nella possibilità d’agire per il bene, il non impegnarsi a tale fine non è essere imparziali, ma colpevoli trasversali d’un male diretto.