La scorsa settimana, nell’ambito dell’iniziativa promossa dal nostro giornale, Il Viaggio delle Idee, si è tenuto l’interessante confronto tra l’ex governatore della Campania Stefano Caldoro e l’ex parlamentare del Pd Umberto Ranieri sul tema “Meridione d’Italia, una questione dimenticata?”.
La risposta ad una simile domanda all’apparenza è scontata, vale a dire sì, la questione meridionale è dimenticata, o, più verosimilmente, non ha la centralità che meriterebbe in ragione delle condizioni in cui versa il Mezzogiorno e del divario a tutto campo, purtroppo sempre più crescente, con il Nord del Paese.
Molto probabilmente, però, le cose non stanno proprio così. Forse la classe politica meridionale è assai più scadente che nel resto del Paese e ciò non fa altro che riflettersi negativamente sulla capacità di sviluppo delle regioni meridionali. Forse ci sono stati e sono stati consentiti troppi sprechi e ruberie ai danni di un Sud sempre più in affanno e in ritardo. Forse un bel po’ di colpe ce le dobbiamo prendere pure noi meridionali, con le nostre scelte o con le nostre non scelte, con le manchevolezze e a volte con le nostre furberie a buon mercato. Forse…
Quel che è certo, invece, sono i numeri che raccontano la situazione in cui versa il Sud e che danno corpo e sostanza alla questione meridionale, purtroppo, tremendamente vera, attuale e irrisolta.
Prendiamo ad esempio la capacità reddituale dei cittadini meridionali. Stando ai dati Istat, dal 2007, quindi l’anno prima che iniziasse la crisi da cui ora stiamo a fatica venendo fuori, il reddito pro capite nel Centro Nord è cresciuto (in termini nominali) di circa 300 euro, mentre al Sud si è ridotto di 500 euro. Un meridionale oggi ha un reddito che è pari alla metà, per la precisione il 54%, di quello di un italiano residente nel Centro Nord. Quel che è peggio è che nel 1950, il reddito pro capite dei meridionali era il 70% di quello registrato nel resto del Paese, mentre nel 1990 era già sceso a poco più del 60%.
E non parliamo dei giovani e della fuga di cervelli dal Mezzogiorno.
“Nel 2015 -scrive Andrea Manzella su LINKIESTA- il Politecnico di Torino ha rilasciato dei dati al limite dello scioccante. Su 10.000 pre-immatricolazioni quasi il 60% provenivano da studenti residenti in Calabria, Sicilia, Sardegna o Puglia. Roberto Lagalla ex rettore dell’ Università di Palermo ha definito la fuga degli studenti dal sud come la «nuova emigrazione meridionale»… quei pochi che si iscrivono all’Università, per la maggior parte vanno al Nord. In Sicilia, infatti, tra il 2008 e il 2012 c’è stato un calo del 19,7% delle iscrizioni, in Puglia del 18,7%. Sempre in Sicilia, il 30% dei ragazzi dopo il diploma decide di muoversi verso il Centro Nord, con mete che variano tra Milano, Verona, Torino, Pisa o Roma. Il motivo? Le università del Centro nord dopo la laurea hanno una media di occupazione del 52,5% al Sud si arriva a malapena al 35%”.
E vogliamo parlare di disoccupazione?
“In Calabria -scrive sempre Manzella su LINKIESTA- il tasso di disoccupazione giovanile è del 58,7%, in Europa la regione sta davanti solo alle regioni spagnole Ceuta e Melilla. In Sicilia 57,2% e Sardegna 56,3%, tanto per fare altri esempi. In Italia l’unica che è inferiore alla media dell’ UE è la provincia autonoma di Bolzano con il 3,7%. In Lombardia il tasso di disoccupazione giovanile è del 18,7%”.
E di questo passo potremmo snocciolare altri numeri, ma la cosa appare davvero superflua.
In conclusione, il Mezzogiorno, da qualsiasi parte lo si consideri, vive uno stato di difficoltà, di arretratezza, che è economica e sociale in primo luogo, ma che si traduce anche in malessere politico, culturale, civile.
Insomma, il Sud in questi ultimi sessant’anni è indubbiamente cresciuto, ma sotto molti aspetti forse Cristo è ancora fermo ad Eboli, quantomeno non si è mosso di molto se teniamo presente il Belpaese nel suo insieme.
Come uscirne? Difficile a dirsi.
Di sicuro, molto dipende da noi stessi meridionali, che dovremmo fare un salto di qualità nel selezionare una classe politica migliore, nell’avere una maggiore e più compiuta partecipazione alla vita delle istituzioni, nel maturare una più adeguata consapevolezza civica, nel pretendere e ricercare una legalità diffusa e radicata, piuttosto che a piangerci addosso e a dare la colpa delle nostre miserie al ladrocinio presunto o reale di questo o di quell’altro nel corso di questi ultimi centocinquant’anni.
E di sicuro la politica nazionale dovrebbe avere contezza del fatto che l’Italia ha proprio nel Mezzogiorno il suo margine reale e immenso di crescita, anzi, come scrive un accademico meridionalista qual è Gianfranco Viesti, il Sud è il «motore per la sua ripresa» e non può essere considerato come una «una insopportabile palla la piede».
Ma la politica, quella attuale, sarà capace di un simile scatto? Tutto sembra, purtroppo, indurci a dare una risposta negativa, anche se la speranza, e più ancora la voglia di dare il proprio, magari piccolo, modesto, ma insostituibile e irrinunciabile contributo ad una svolta in positivo, ci consiglia di non disperare del tutto.