scritto da Luigi Gravagnuolo - 17 Maggio 2019 12:36

C’è sovranismo e sovranismo

Tre mesi fa avrei giurato che saremmo arrivati al voto per il Parlamento Europeo con più passioni in campo. Mi figuravo un grande dibattito continentale, da una parte gli euro-scettici e gli euro-fobici, per i quali i problemi dei singoli Paesi dipendono dalla malvagia burocrazia europea e dall’euro; dall’altra gli europeisti nelle loro varie sfaccettature, da quelli che difendono l’U.E., ma vogliono riformarla per renderla più forte, a quelli che la vorrebbero più sociale e meno monetarista.

Mi ero detto: finalmente nelle urne ci andremo con un’alternativa chiara, sì o no all’Unione Europea. Viceversa, qui in Italia, i quotidiani battibecchi tra Di Maio e Salvini hanno rubato la scena al punto che oggi pochi si sentono coinvolti sulle questioni di merito del voto.

Fatto sta che domenica 26 maggio si apriranno le urne. Vale la pena quindi di entrare nel merito. Se vinceranno i sovranisti, ci sarà più autonomia o comunque vantaggi per l’Italia? Neanche per idea! L’equivoco nasce dal variegato dedalo del sovranismo europeo. Salvini, ad esempio, dice che nel Parlamento Europeo  farà gruppo con suoi partner di altri quindici Stati membri dell’Unione. Vero, ma sono in gran parte i Paesi del Gruppo di Visegràd ed i loro vicini; per capirci, sono i partiti sovranisti dell’ex Europa comunista. Sono davvero anti-europeisti i popoli di questi Stati? Manco per idea!

Sono entrati nell’Unione nel 2004, nello stesso anno in cui aderirono alla NATO. Tale coincidenza temporale non fu una combinazione astrale, discese dalla ricerca di una protezione contro eventuali minacce di ritorno dell’egemonia russa. Minacce molto concrete, come sanno in Ucraina. Aderirono all’UE per consolidare la loro riacquistata sovranità dopo anni di dominio russo-sovietico e, per questo, contestualmente vollero farsi proteggere dalle armi della NATO.

L’Istituto di Ricerca GPF-Inspiring Research, con sede a Roma ed a Londra, presieduto dall’italiano Roberto Baldassari, ha pubblicato il suo ultimo Vox Populi sull’Europa lo scorso 10 maggio, ultimo giorno prima che scattasse il divieto di pubblicazione di nuovi sondaggi sul voto europeo. Non è il solito report sui rapporti di forza tra le liste italiane. Riguarda tutti i 28 paesi dell’Unione e comincia con una domanda semplice: “Se si votasse domani per rimanere o uscire dall’Europa Lei cosa voterebbe?

La grande maggioranza degli Europei, il 71%, voterebbe per restare in Europa. E sapete chi sono gli elettori più europeisti? Dato per scontato l’europeismo dei Paesi del Benelux, della Germania e dell’Irlanda, quest’ultima in chiave antibritannica, che nel loro insieme superano l’85% dei remain, sorprendentemente gli elettori che più concorrono ai sentimenti pro-Europa, in media per il 72%, sono proprio quelli dell’ex Europa comunista.

Ma allora gli Orban e gli altri capi di Stato di questi Paesi, che sembrano così estremisti nel loro sovranismo anti-europeo, avranno una batosta nelle urne? Manco per idea.  Il fatto è che questi Paesi, nella loro storia secolare, hanno dovuto difendere la loro sovranità non sempre e non solo dai Russi, ma anche dai Tedeschi e dagli Ottomani. Si stanno ora godendo la loro sovranità, e proprio per questo non hanno alcuna intenzione di abbandonare l’Europa, trovandosi poi esposti alle mire di Putin. Come non ne hanno di subire l’egemonia tedesca sotto le bandiere dell’Unione. Meno che mai sono propensi a farsi carico dei problemi dell’Italia. Provate a mandargli una piccola quota dei nostri immigrati o a chiedere loro sostegno per ottenere delle deroghe ai vincoli sul nostro debito pubblico e vedete che vi rispondono!

A ben guardare, gli unici e veri euro-scettici del continente stanno nel cuore dei Paesi fondatori dell’Unione, primi tra tutti l’Italia e la Francia. Noi siamo europeisti solo per il 54%; meno ancora lo sono i Francesi, al 51%.

Luigi Gravagnuolo, giornalista, scrittore, docente ed esperto di comunicazione. E' stato Sindaco di Cava de’ Tirreni dal 2006 al gennaio del 2010, quando si dimise per andare al voto con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato.

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