Assenteismo e fragilità delle architetture istituzionali
Nella memoria delle consultazioni si parte dal 90% della partecipazione al voto per l’elezione del primo Parlamento della Repubblica, nel 1948, discesa al 48,31% registrato nelle ultime votazioni del 2022
Nei commenti post elezioni, l’assenteismo dalle urne è divenuto, da tre decenni, un ritornello. Quasi un obbligo per discettare sul fenomeno di tale diserzione, di volta in volta, attribuito a particolari circostanze, di luogo e tempo, o a distacco e disaffezione dell’elettorato del mondo della comunità civile rispetto alla politica politicante praticata dai suoi attori.
Nella memoria delle consultazioni si parte dal 90% della partecipazione al voto per l’elezione del primo Parlamento della Repubblica, nel 1948, discesa al 48,31% registrato nelle ultime votazioni del 2022.
Si tratta di una tendenza consolidata anche nei test locali fino al 46,42% registrato per le regionali in Emilia Romagna che sin dalla fondazione della Repubblica ha primeggiato per mobilitazione del proprio corpo elettorale. Si capisce che il non voto induca a diagnosticare un problema di salute per la democrazia e di autorevolezza nel rappresentare il paese reale nelle istituzioni di governo.
C’è chi ne attribuisce l’eziologia alle forme liquide della presenza dei partiti nel contesto sociale e culturale del Paese e chi la riscontra nei sistemi elettorali (quattro sperimentati negli ultimi trent’anni) che hanno consentito alle leadership di ciascun simbolo di predeterminare i nominativi dei potenziali eleggendi: limitata la facoltà di scelta ci può stare un “vaffanculo” al dovere civico della partecipazione al voto. Ma, c’è anche una questione di qualità di profili professionali disponibili a tentare avventure nell’incertezza di un agone politico ultra frantumato, incapace di conferire prospettive dí governabilità a lungo e medio termine e, soprattutto, di operare per obiettivi comuni: 75 compagini governative in 76 anni, di cui sette negli ultimi dieci anni distintisi per carenza di continuità e compatibilità di identità programmatiche.
Due valori fondanti per la governabilità del Paese che, viceversa, sono stati possibili mantenere nel ciclo della cosiddetta prima Repubblica per la costante presenza a Palazzo Chigi di un partito di maggioranza relativa, la DC, nonostante la durata media di poco più di un anno dei diversi gabinetti di Governo monocolori o di coalizione con partiti minori per consensi, ma rappresentativi di culture politiche (PSI, PRI, PLI, PSDI) compatibili con la posizione geopolitica dell’Italia. La relativa forza propulsiva è implosa con “tangentopoli”, che ha cancellato, per mano giudiziaria, l’Olimpo delle rispettive classi dirigenti.
Un ciclone abbattutosi sul sistema delle istituzioni politiche, non per un capriccioso volere di Giove, ma già preavvertito negli ottanta del secolo scorso come “questione morale” e di gracilità dei poteri esecutivi prigionieri dei maneggi delle oligarchie parlamentari.
Ne hanno sollevato istanze di cambiamento di passo, rispettivamente, Enrico Berlinguer (PCI), il quale definiva i partiti entrati in crisi “macchine di potere e clientela” e Giorgio Almirante (MSI) che in un suo pamphlet “Processo alla Repubblica” auspicava un referendum per riformare, sul modello del presidenzialismo alla francese, le architetture istituzionali inscritte nella seconda parte della Costituzione.
E su questo tema di opzione tra governo espressione del Parlamento o del voto diretto popolare nella forma di presidenzialismo o di premierato, già dibattuto in Costituente, si sono cimentati, nell’intento, non riuscito, di rimodulare il testo costituzionale al passo con il tempo e con l’attualità del contesto politico, tre Commissioni bicamerale ed approcciate due riforme (Berlusconi e Renzi) che non hanno superato il test referendario. Ora, al di là delle puntigliose e strumentali contrapposizioni, il cambiamento è necessario per rigenerare passione e conferire credibilità alla politica ed è possibile attivare convergenze sul “premierato” e/o “presidenzialismo” che sono nel dna della destra, della sinistra post comunista confluita nell’atto di nascita del PD (Veltroni, D’Alema, Bersani, Fassino) e dello stesso federatore sotto l’albero dell’Ulivo, Romano Prodi.
Sul punto non è un fuori tema invertire il detto popolare partenopeo “ogne ppopolo tène ‘o governo ca se ‘mmerèrita” in ogni governo sia meritevole del favore del popolo.
E’ la bellezza della democrazia.