scritto da Filippo Falvella - 05 Febbraio 2025 07:01

La realtà nel suo divenire: Uno, Nessuno e Centomila

«La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo» – Uno, nessuno e centomila

L’approccio ad uno studio della realtà in materia filosofica, e non, si è spesso manifestato come una urgente ricerca del manifestare una concreta appartenenza, degenerativa in una dimensione possessiva del fenomeno, a tutto ciò che a noi si presenta come “reale”.

L’intera sfera delle percezioni e delle sensazioni, applicate a quanto ci circonda, non sono mai state davvero esaustive al fine di poter porre l’uomo come entità che attraversa determinati enti, resosi vittima d’uno spettro relativista, rinunciando alla ragione della scienza pur di poter dire per vero d’essere in virtù del vivere. E alle spalle di questo spettro si palesa un problema ben più grande della presa coscienza dell’esserci, ed è quella non rara circostanza in cui una realtà a noi familiare, la quale fa da cardine a molte altre realtà ad essa subordinate, viene a spezzarsi. Quanto è d’interesse affrontare in questa sede non è dunque il modo attraverso la quale questo determinato avvenimento tende a verificarsi, né tanto meno il presuntuoso tentativo di porre un punto alla ricerca della dimostrabilità del fenomeno, bensì analizzare con l’aiuto di illustri pensatori, quelle che sono le dinamiche direttamente successive a questa “epifania”.

Uno, nessuno e centomila

“Uno, nessuno e centomila” è probabilmente il più sublime tentativo di scomposizione della realtà, che, così come Lucrezio con il suo inno alla Aèneadùm genetrìx, tenta di addolcire il suo acre contenuto, stavolta con una chiave decisamente umoristica. Dopo una lunga gestazione il romanzo, iniziato nel 1909, trova la sua definitiva elaborazione, con successiva pubblicazione nel 1926. A detta dello stesso Pirandello, Nobel per la letteratura nel 1934, questo suo ultimo romanzo è quello che più, anche secondo una lettura autobiografica dello stesso, definisce il suo pensiero, e sicuramente il suo tentativo più completo di tale definizione. Il protagonista del romanzo è Vitangelo Moscarda, una persona ordinaria, che vive di rendita attraverso l’eredità ottenuta dal padre. La vicenda si apre in seguito ad un’osservazione da parte della moglie, la quale nota una leggera incrinatura nel suo naso, suscitandogli una crisi di identità, che degenerando lo porta alla consapevolezza di non essere “unico”, inducendolo ad uno stravolgimento in toto della sua stessa vita, che nel suo culmine lo porterà in un ospizio, arrivato ormai alla follia, il quale per assurdo lo renderà libero, in quanto le sue sensazioni lo porteranno a vedere il mondo da un’altra prospettiva, nella possibilità di vivere la sua vita secondo le stesse, rendendosi conto della continua evoluzione della vita, e la necessità di rinascere ogni momento in qualcosa di nuovo, distaccandosi simbolicamente da quello che era il suo nome, alla quale lega la immane presenza d’una figura unica e della morte.

La realtà fenomenica attraverso Kant e Schopenhauer

In filosofia il fenomeno altro non è che la manifestazione attraverso i nostri sensi del mondo che ci circonda, quella che potremmo definire una soggettiva chiave di lettura di quello che si manifesta a noi come esperienza. La realtà fenomenica però, per quanto manifestazione del reale, non è una realtà, per assurdo, del tutto esaustiva, e vive in questa insufficienza una costante contrapposizione con quella che, in molte correnti filosofiche, è la ricerca d’una realtà “ideale”, molto spesso mascherata dell’essere “illusorio” del fenomeno. Nel tentativo di riassumere la filosofia Kantiana, al fine di poterla brevemente trattare nelle nostre riflessioni, potremmo dire che identifica il fenomeno come oggetto della rappresentazione che esiste al di fuori della coscienza, appreso tramite determinate forme a priori, che termina in una contrapposizione conoscitiva con il noumeno, quell’essere pensabile ma inconoscibile, negando dunque una qualunque possibilità di dimostrare il reale nelle sue forme più pure. Ora, fatta questa breve sintesi, ci è possibile, attraverso Schopenhauer, entrare nel vivo della nostra elaborazione. Il fondamentale distinguo tra la filosofia fenomenica Kantiana e quella Schopenhaueriana, e la realtà molto più soggettiva e relativista della seconda. Per Schopenhauer il fenomeno è la stessa rappresentazione, ma vive non esteriormente alla coscienza, bensì al suo interno, manifestandosi dunque come parvenza, mera illusione d’una realtà molto più vasta, e a noi, nelle sue forme, sconosciute.

L’illusione della realtà

La decisione di trattare il fenomeno attraverso le filosofie di Kant e Schopenhauer, non è casuale. La realtà che loro descrivono è, in una prima frazione, secondo il filosofo di Königsberg, inarrivabile, non degna per sua stessa impossibilità d’una difficile lucubrazione esistenzialista, in pochi termini, non possiamo determinare la nostra esistenza attraverso un qualcosa che non potremo mai definire. Nella seconda frazione, per assurdo la più positivista tra le due, la realtà, indipendentemente dai modi che poi Schopenhauer ci fornirà nel mero tentativo di “definirla”, è una definizione illusoria d’un qualcosa a noi velato. Ancora una volta, nella historia hominum, l’uomo vive una forte irrequietudine, propria del suo vivere, nel dover a tutti i costi manifestare se stesso attraverso le cose altre. Nella sua turbolenza, nel suo terrore di vivere nell’ignoto, l’uomo fonda il pensiero sulla costante definizione, sulla “nomenclatura”, ritenendo che il conoscere un qualcosa, e fissarlo in un punto preciso e distaccato dagli altri, in qualche modo lo faccia suo, anteponendosi a realtà conoscitiva e non conoscibile, come tanti soggetti, in un modo però, dove gli oggetti sono ben pochi. La realtà è un costante divenire, che non tiene traccia, che non tiene storia, che non muta se stessa al fine di poter vivere in una definizione, ma muta se stessa con la consapevolezza che deve essere seguita, e dunque vissuta, nel continuo cambiamento, e non è giusto vivere l’impossibilità di conoscere un qualcosa come limite del nostro essere, perché sono proprio i limiti che la ragione pone a rendere la nostra mente irrazionalmente illimitata.

Ho 24 anni e studio filosofia all'Università degli studi di Salerno. Cerco, nello scrivere, di trasmettere quella passione per la filosofia ed il ragionamento, offrendo quand'è possibile, e nel limite dei miei mezzi, un punto di vista che vada oltre quel modo asettico e alle volte superficiale con cui siamo sempre più orientati ad affrontare le notizie

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