IL BANDO PLATONICO DELLA COMMEDIA TRAGICA
Quanto ci interessa della filosofia Platonica in questa trattazione è contenuto all’interno del dialogo de “La Repubblica”, opera più matura ed esaustiva del filosofo, divisa in dieci libri e scritta probabilmente tra il 390 ed il 360 a.C. circa.
Nella sua vasta introduzione allo stato ideale rappresentato dalla “Kallìpolis” Platone, soffermandosi sull’educazione che la classe dei futuri governanti avrebbe dovuto ricevere, nega a questi la visione della commedia in tutti i suoi generi e della poesia, definendo tali arti “imitazione dell’imitazione”, presupponendo che di base la realtà è imitazione della vera realtà che si cela dietro le cose. Il bando della commedia avveniva nel timore che questa, mostrando a colui che la osservava determinati personaggi, con forti forme caratteriali nella quale rispecchiarsi, determinasse una spaccatura dell’io, ovvero l’idealizzazione d’un falso modello che è in realtà molto distante dalla propria interiorità o, più specificamente, il perder di vista chi si è in favore dell’emulazione di tale personaggio.
Tale preoccupazione si fonda sicuramente più su una meccanizzazione filosofica dell’intelletto, trattato qui dal grande filosofo ateniese come una macchina immagazzinatrice, la quale si rifà all’ultima immagine vista come se questa fosse l’unica possibile, ma vive d’un fondamento psicologico che, se correttamente trattato, può essere considerato particolarmente avanguardista. Ma riportando alla mente che non è l’uomo a cambiare bensì i tempi che esso vive, tentiamo sbrigativamente di trattare il fenomeno che ha sostituito, almeno per i più, la ormai elitaria commedia teatrale.
LA NUOVA COMMEDIA
Quasi nessuno degli interessi umani ha dimostrato nelle sue forme, se non quelli meramente istintivi, una certa immanenza nel corso dei secoli, e nella nuova mondanità per la maggior parte degli individui la visione d’una serie tv risulta sicuramente più comoda e veloce d’una serata passata in teatro.
Seppur di natura meno evocativa si può dire che la prodigiosità dei mezzi tecnologici offre alla serie tv una capacità di rendersi maggiormente immersiva, ponendo il pubblico di fronte quello che potrebbe sembrare un punto di vista in prima persona della faccenda osservata e questo facendo lo spettatore giudice in toto, in quanto fonte esterna che conosce la situazione in tutti i suoi aspetti. Ma se cambia il mezzo di questa presunta spaccatura del proprio io, non cambia la spaccatura stessa, ora vittima d’una manifestazione ancor più efficace.
Nella cultura di massa vengono proposte sempre più figure, appartenenti a circostanze o culture totalmente differenti tra loro, i quali vengono fieramente emulati ed idolatrati seppur appartenenti ad un fenomeno di matrice di solo intrattenimento, portando gran parte degli spettatori a far coincidere il personaggio con l’attore che lo interpreta, manifestando una accomodante realtà imitativa a cognitiva, la quale si pone per giustificare tale attrazione verso un personaggio tentando di renderlo reale, facendolo come detto corrispondere a quello che è l’individui che ne recita la parte.
LA NATURA DEL NOSTRO VASO
Un vaso debole assorbirà la luce delle piante a lui vicine, crescendo foglie che poi finirà per credere sue, rendendosi così tanto vittima della sua imitazione per finire a determinarla come sua realtà autentica. Ma se l’uomo deve per analogia essere un vaso contente una pianta, che sia una pianta grassa, una pianta grassa che non abbisogni di fonti esterne per il proprio sostentamento, ma che sia capace di fare da sé la sua acqua, ovvero la sua essenza.
Nell’imitazione dell’imitazione l’osservatore presenta una terza sfera imitativa, basandosi su un modello che per sua natura è assolutamente distaccato dal reale, non vivendo del contesto della vita stessa ma su di una sua rappresentazione. L’imitazione ad un modello che sembri ideale si pone come chiara manifestazione d’una insufficienza di gradimento del proprio io, d’una mancanza fondamentale che si cela in noi.
Così protesi a cercare fuori la verità dimentichiamo che l’unico scorcio dove essa è visibile è celato in noi, e che le comodità non dovranno mai intasare tale scorcio di formazione individuale, perché nella vita non diventiamo ciò che decidiamo di vedere, ma ciò che decidiamo nel profondo di coltivare affinché le nostre radici mantengano vive le nostre foglie, e affinché nel giardino del mondo i fiori non siano tutti uguali, ma che formino nella loro diversità ed individualità un tripudio di colori, che potremmo davvero nel suo colore chiamare vita autentica.