MUSICA Il Lindy Hop di Paolo Palopoli
Il cd verrà presentato il 27 giugno con un live showcase a Napoli presso la fondazione De Filippo a Palazzo Scarpetta
Nell’epoca della musica swing il Lindy hop è stato un vero fenomeno di massa. Centinaia di ballerini affollavano le ballroom americane dove si esibivano le grandi orchestre swing. Il Lindy hop è stato negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso un vero esempio ed insieme allo swing fu il primo fenomeno sociale trasversale nella storia degli Stati Uniti.
A farci rivivere quello straordinario periodo c’ha pensato Paolo Palopoli, raffinato chitarrista partenopeo col suo nuovo progetto dal titolo “Road to Swingin’ Hop” che parla di swing, amore, ballo, con tanti colori, un viaggio tra la Francia, gli Stati Uniti, i paesi balcanici e l’Italia.
Arrivato al nono disco, per Palopoli questa è una nuova esperienza poiché si cimenta anche come cantautore, in particolare uno sul ballo Lindy hop, prima volta in Italia e nel mondo.
Il cd verrà presentato il 27 giugno con un live showcase a Napoli presso la fondazione De Filippo a Palazzo Scarpetta, in via Vittoria Colonna, 4 ore 17.30, con la presenza di giornalisti ed esperti di settore, modera Argia Di Donato. Apertura al pubblico dalle 17.
È un disco che nasce dall’esigenza di coniugare lo swing e il Lindy Hop, per l’etichetta Emme Record Label, e racconta il felice connubio tra il mondo dello swing e l’energia del Lindy Hop, in un viaggio musicale che parte dal jazz europeo di Django Reinhardt, il pioniere del jazz manouche, che attraversa la tradizione balcanica, fino ad arrivare alle sonorità più moderne dell’elettroswing, passando per momenti più intimisti e sonorità jazz waltz e new musette francesi. Dopo 8 dischi registrati a suo nome e tanta esperienza nazionale e internazionale, “Road to Swingin’ Hop” è la sintesi dei percorsi musicali che hanno caratterizzato gli esordi musicali di Paolo Palopoli; in particolare la passione per lo swing europeo di Django Reinhardt, il be bop, la musica etnica, le sonorità ECM alla Pat Metheny, uniti dalla voglia di mettersi in gioco oltre che come compositore anche come autore di testi. Il progetto è strutturato in 12 tracce, di cui 10 composte dallo stesso Paolo Palopoli e 4 cantate.
Un lavoro che è anche impreziosito dalla presenza di Alessandra Vitagliano e Federica Cardone alle voci, Giovanni Mattaliano e Enrico Erriquez al clarinetto, Mauro Carpi al violino, Leonardo Ciraci alla fisarmonica, Ciro Riccardi alla tromba, Massimo Mercogliano al contrabasso, Domenico Benvenuto alla batteria e percussioni, Andrea Parente alla chitarra ritmica e Carlo Contocalakis ai cori e arrangiamenti insieme allo stesso Paolo Palopoli, col suo fluente fraseggio.
Un disco, dunque, che rappresenta uno spaccato storico che favorisce l’innesto di eventi e personaggi fictional con l’intento di dare colore e vivacità a una narrazione che, ad ascolto concluso, si rivela piacevole, con un pizzico di mordente. L’intento del chitarrista partenopeo è quello di eternare il mito del ribelle Django, la sua spregiudicatezza e la sua libertà interiore, con suadenti suggestioni con la fisarmonica in ‘Balarm in 7” e ‘Rue Belleville”, in cui Palopoli fa rivivere lo stile tzigano, dalla malinconia dolce e intensa, che da solo dimostra quanto sia complesso il rapporto che lega i gitani alle terre che «attraversano», quanto le influenzano e, al tempo stesso, se ne fanno influenzare. E così la musica «manouche» attinge dalla tradizione melodica ungherese i trucchi e le scorciatoie che più direttamente arrivano alle corde del sentimento: un tempo un po’ rubato, accelerazioni e decelerazioni improvvise, sapienti e frequenti glissando. Spesso tali esecuzioni sono, come il Bolero, costruite su un impercettibile e costante crescendo, che fa montare l’emozione, la estrae dalle viscere. Ma tutto ciò si può tradurre talvolta nel gioco improvvisativo del jazz, in un contrappunto di ispirazione europea, o viceversa in modi che tradiscono matrici orientali. Curioso: quando si tratta di musiche etniche viene spesso evocata la metafora delle radici più profonde. Ma se pensiamo alla cultura gitana, la metafora diventa piuttosto quella di piante acquatiche, che nutrono le proprie piccole e mobili radici non nell’humus profondo, ma in ciò che trovano strada facendo.