Voto Consulta, teatralità aventiniana e superficialità governativa
Più che un atto politico di ribellione contro l’assolutezza del dominio dei partiti di maggioranza, nella diserzione dal confronto e conta in Parlamento si può configurare uno stratagemma per rimandare la ricomposizione del plenum della Consulta a nuovo anno
La Consulta il prossimo 12 novembre dovrà esprimersi sulla costituzionalità della legge sull’Autonomia differenziata (Ad), contestata da più Regioni, tra cui Toscana, Puglia e Campania, ed a gennaio è chiamata a valutare l’ammissibilità dei requisiti referendari posti su iniziativa delle forze politiche di opposizione.
La sequenza delle due date offre una spiegazione del cosiddetto “Aventino” da esse poste in essere per impedire l’elezione di un componente, candidato dalla compagine parlamentare di Governo (Francesco Saverio Marini), in sostituzione di un giudice (Silvana Sciarra) il cui mandato era scaduto l’undici novembre del 2023.
Più che un atto politico di ribellione contro l’assolutezza del dominio dei partiti di maggioranza, nella diserzione dal confronto e conta in Parlamento si può configurare uno stratagemma per rimandare la ricomposizione del plenum della Consulta a nuovo anno, quando, a seguito della scadenza di mandato di altri tre giudici costituzionali (Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti), il sistema di scrutinio impone trasversalità di voti e favorisce la distribuzione degli eleggendi secondo le aree politiche dei proponenti.
Si voterà a scrutinio segreto per quattro candidati per la cui elezione sono previste maggioranze qualificate (2/3=403 nei primi tre scrutini e 3/5=363 a seguire) non raggiungibili, autonomamente, da ciascuno dei due schieramenti contrapposti, salvo commistioni o scambio di favori nell’anonimato dell’urna.
Senza accordi preventivi per ben otto volte è rimasto inascoltato, dal luglio scorso, l’appello o l’intemerata del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sullo stallo del Parlamento come “un grave vulnus alla Costituzione”. Ci proverà con la moral suasion nel rispetto delle prerogative dello stesso Parlamento che ha il dovere di adempimenti costituzionali che non può portare per le lunghe, anche se nella storia della Repubblica il record delle fumate nere per la composizione del plenum della Consulta è di venti mesi contati nel 2016 e 2018.
Gli preme non tanto di mediare accordi, quanto di sollevare una questione di rispetto delle istituzioni e del loro funzionamento, soprattutto di un organo di garanzia. Si tratta di fare uscire, da una parte, le opposizioni (Pd, Avs,, Azione e IV) dalla teatralità di un “aventinismo” strumentale, non sostanziato da derive autoritarie, e dall’altra di abbassare il livello di oltranzismo della compagine governativa (FdI, FI e Lega) che non ha i numeri (le mancano sette voti) per il quorum dei 3/5 dei membri di Camera e Senato, riuniti in Assemblea comune.
In questa ottava tornata, al di là delle rituali reciproche accuse di irresponsabilità, si può dire, secondo il linguaggio del ring, che ne esca suonata Giorgia Meloni e premiati ai punti gli “aventiniani”. Ma per costoro, uniti sul “no”, a prescindere, il voto sulla Consulta sarà divisivo quando, forzati da accordi con la coalizione di maggioranza, saranno costretti a contendersi una o due candidature sulle quattro da eleggere.
Lo stesso scenario, in verità, si prospetta nella compagine di centrodestra, perché, ferma o consolidata la candidatura di Francesco Saverio Marini, consulente giuridico della Premier, Giorgia Meloni, incombono, per ulteriori scelte, tensioni ed inquietudini già manifestate da ciascuno dei tre partner.
Si tratta di scenari verosimili e sono gli “aventiniani” a correre il rischio di sparigliare la loro intesa, nutrendo ciascuno di essi disparità di obbiettivi dentro o fuori l’ipotetico “campo” senza dimensioni per capienza politica. Come dire che ciascuno di essi ha recitato a soggetto nel motivare la scelta dell’Aventino.
L’ “antimelonismo” è stato il comune denominatore nel precostituirsi un alibi etico, denunziando ipotesi di conflitto d’interessi e di travisamento politico di un organo di garanzia che si sarebbero potuto configurare a seguito dell’elezione di Francesco Saverio Marini, curatore giuridico della proposta di Premierato, la madre di tute le riforme messe in cantiere dal Governo presieduto da Giorgia Meloni, anch’esso destinato a finire sotto le lenti della rigenerata Consulta.
Le citate ipotesi, tradotte in slogan, hanno colorano il dibattito politico, suggestivo ma fuorviante. Perché, nel primo caso c’è già una casistica regolamentata e nel secondo è il sistema di formazione della Consulta dettato dalla Costituzione che ne garantisce l’indipendenza dal potere politico esercitabile dal Governo di turno. Su quindici componenti solo cinque sono nominati dal Parlamento, altri cinque dal Presidente della Repubblica ed altrettanti dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative. Per tale adempimento la maggiore responsabilità ricade sulla maggioranza di Governo con la faccia di Giorgia Meloni, la quale conta sulla lealtà politica dei suoi partner ed istituzionale da parte delle opposizioni che dovranno concorrere alla designazione ed elezione dei nuovi quattro giudici costituzionali.
Attivate le trattative, a parte gli striscianti mugugni interni al centrodestra, incombe un problema di posizionamento tra le variegate componenti dell’opposizione. Chi si smarcarerà dal sodalizio aventiniano e chi resterà con il cirino in mano? E tra Giuseppe Conte e Elly Schlein chi acchiapperà solo nuvole?