scritto da Eugenio Ciancimino - 06 Luglio 2025 12:34

Strage di Via D’Amelio, mistero ad alta tensione

È quello che vogliono conoscere le moltitudini di donne, uomini e  giovani provenienti di tutta l’Italia che ad ogni anniversario di quella stagione di sangue di Maggio e Luglio 1992 si raccolgono a Palermo

Le indagini giudiziarie sulla strage di Via D’Amelio (19 luglio 1992), in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, dopo 33 anni dall’evento, ricominciano dal ritrovamento di brogliacci di intercettazioni sull’inchiesta mafia-appalti e dalla ricerca dei mandanti ufficialmente non “punciuti”, ossia non riconoscibili come membri della cosiddetta “Cupola di Cosa Nostra”.

I primi  contenuti in buste timbrate dalla Guardia di Finanza, abbandonati e non sensibilizzati nel 1992 dalla Procura di Palermo, si trovavano negli archivi polverosi del Palazzo di Giustizia. Mentre il secondo oggetto sul quale  si vuol fare luce da parte del pool antimafia della Procura di Caltanissetta, guidato da Salvatore De Luca, riguarda un appunto, datato 20 luglio 1992, vergato dal Capo della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, nel quale si afferma di avere consegnato a Giovanni Tinebra, Procuratore della Repubblica del Tribunale nisseno, “uno scatolone in cartone contenente una borsa in pelle ed una agenda appartenente al Giudice Borsellino”.

Il che ha dato origine a nuove indagini, dopo quelle dei depistaggi, con relative perquisizioni operate presso parenti e domicili appartenuti a Giovanni Tinebra, morto nel 2017. Il filone mafia-appalti, che in particolare riguardava rapporti tra aziende del Gruppo Ferruzzi e “Cosa Nostra”, era quello su cui Borsellino intendeva approfondirne i contenuti: richiesta negatagli in vita, accordatagli dieci ore prima della sua morte ed archiviata tre giorni dopo.

Il nuovo filone imbroccato dalla Procura di Caltanissetta coinvolge il mondo della massoneria (Tinebra ne avrebbe fatto parte), degli apparati dei servizi di Polizia e sicurezza dello Stato, cui appartenevano Arnaldo La Barbera e Bruno Contrada, dirigente del SISDI. Posto che “l’agenda rossa non sparì per mano mafiosa”, come recita uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza sul depistaggio, c’è da sciogliere il mistero  su da chi e perché  fu dato il mandato ad uccidere, nello spazio di 57 giorni, prima Giovanni Falcone e dopo Paolo Borsellino.

Ombre incombono anche sul mondo delle toghe, cui sono imputabili “più colpe”, come Borsellino puntualizzò nel corso di un suo intervento sull’uccisione di Giovanni Falcone pronunziato il 25 giugno 1992 nella biblioteca comunale di Casa Professa di Palermo. Ne diede spiegazioni ripercorrendo il tessuto di ambiguità del CSM e di trame imbastite da fonti sia politiche che giudiziarie e riverberate attraverso media compiacenti a discredito dei metodi di lavoro di Giovanni Falcone, innovativi ed utilizzati con successo nella lotta contro la criminalità organizzata, rispetto alle sonnacchiose pratiche burocratiche fino ad allora in uso nei Palazzi di Giustizia.

“Giovanni – sono parole di Borsellino – incominciò a morire professionalmente a partire da gennaio 1988” quando il CSM per la successione ad Antonino Caponnetto  nella guida dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo gli preferì “con argomenti risibili” Antonino Meli. “Nonostante lo schiaffo datogli dal CSM – sono sempre parole di Borsellino – Falcone, dimostrando alto senso delle istituzioni, ha continuato nel suo lavoro” tra diffidenze ed ostacoli tesigli “per farlo morire in silenzio e smantellare il pool antimafia”. Sul punto Borsellino, in occasione della presentazione di un libro ad Agrigento, ne denunziò le trame di Palazzo, perché venissero rese di comune conoscenza, raccogliendo – come disse nell’incontro a Casa Professa – “ritorsioni e conseguenze professionali gravissime” che egli stesso aveva messo in conto, tra cui il suo isolamento posto in essere nell’ambito del Palazzo di Giustizia di Palermo. E del pericolo cui andava incontro fu avvertito anche dal pentito Gaspare Mutolo, il quale mentre veniva interrogato gli disse: “si guardi le spalle”.

Ne ebbe sconvolgente conferma in una stanza del Viminale, dove avrebbe dovuto avere un’incontro con il Ministro degli Interni e viceversa si trovò di fronte a Bruno Contrada del SISMI interessato alle rivelazioni dell’interrogatorio di Mutolo. Una vera e propria trappola tesagli per tacitarlo nel più breve tempo possibile. Nel citato discorso, pronunziato presso la biblioteca comunale di Palermo 33 giorni dopo la strage di Capaci e 24 prima di Via D’Amelio, Borsellino premettendo di essere un magistrato ed anche testimone, “avendo vissuto a lungo accanto a Giovanni Falcone e raccolto tante sue confidenze”, avvertiva il dovere di non attardarsi in divulgazioni di “opinioni e convinzioni personali” prima di rassegnare all’Autorità giudiziaria “elementi utili alla ricostruzione dell’evento” di Capaci.

Non fu mai convocato per declinare le sue conoscenze alla competente Procura di Caltanissetta. Si capisce come il mistero della “Agenda Rossa” sia perdurato a lungo nel tempo, costituendo il suo contenuto un pericolo ad alta tensione. Chi tocca i fili muore! O come una sorta di araba fenice: “che ci sia ciascuno lo dice, dove sia nessuno lo sa”! Ma chi l’ha avuta in mano e ne ha letto il contenuto ne conosce il mistero della morte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, martiri della fede sulla via della giustizia e della verità!

È quello che vogliono conoscere le moltitudini di donne, uomini e  giovani provenienti di tutta l’Italia che ad ogni anniversario di quella stagione di sangue di Maggio e Luglio 1992 si raccolgono a Palermo intorno all’albero Falcone di Via Notarbartolo e davanti all’Ulivo della Pace in Via D’Amelio. Come dire che il messaggio di Giovanni e Paolo sul maleodorante puzzo di mafia è più avvertito fuori che dentro i Palazzi. Ma a prenderne coscienza nei loro ovattati piani alti non è mai troppo tardi!

 

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