Strage di Capaci, la stagione terroristica di “Cosa nostra”
La mafia fa affari e si nutre di omertà, silenzi e compiacenze. È il suo storico ed autentico dna!

La strage di Capaci può considerarsi centrale nella strategia terroristica di stampo mafioso deliberata dalla “cupola” di “cosa nostra” contro uomini delle istituzioni e di apparati dello Stato che le mettevano “bastoni fra le ruote” del malaffare. Ed ha avuto un prima ed un dopo.
Il 23 Maggio del 1992, alle ore 18, una carica di centro chili di tritolo fatto brillare sotto un cunicolo dell’autostrada Punta Raisi-Palermo hanno centrato in pieno le autovetture su cui viaggiavano il Giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anch’ella magistrato, e quella degli agenti della scorta composta dai poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Dopo cinquantasette giorni a Palermo una Fiat 126 imbottita di tritolo piazzata in Via Mariano D’Amelio provocava la morte del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Entrambi, magistrati autori dell’istruttoria del primo maxi processo, celebrato e passato in giudicato sul sistema di operare tipico della mafia applicato anche nell’intessere affari e relazioni con il mondo legale delle professioni, dell’imprenditoria e degli apparati politici ed istituzionali, avevano immaginato la loro eliminazione, fisica, condividendone anche l’angoscia del tritolo incombente.
Cinquantuno candelotti di esplosivo, sventato, erano stati piazzati nel 1989 in prossimità della villa a mare dell’Addaura abitata da Giovanni Falcone e notizie dell’arrivo del tritolo brillato in Via D’Amelio sono state anticipate da più “voci” a Paolo Borsellino. Se ne comprendeva la sua richiesta di fare presto su alcuni dossier su cui aveva lavorato anche Giovanni Falcone, che gli era stata negata dal collegio della Procura del Tribunale di Palermo e concessagli dal Procuratore capo dodici ore prima che brillasse il tritolo in Via D’Amelio alle 17 circa del 19 Luglio. E se ne comprende ancora di più ora a seguito dei depistaggi che hanno caratterizzato le indagini per i relativi processi.
La sequenza degli attentati terroristici trasferita fuori dalla Sicilia, pratica inconsueta nella storia della mafia, colpiva, appena un anno dopo, luoghi simbolici dell’arte, del culto religioso e della cultura italiana. Il primo messo in atto il 14 Maggio 1993 a Roma in via Fauro, che avrebbe dovuto uccidere Maurizio Costanzo, ha provocato con l’esplosione di un’auto-bomba 23 feriti; il secondo il 27 Maggio in via dei Georgofili a Firenze con la conseguenza di cinque morti e dodici feriti; altri due attuati a Roma il 28 Luglio a San Giovanni in Laterano e San Giorgio di Velabro, con venti feriti. Un altro ancora programmato per fine anno, ma non riuscito, con obiettivo i Carabinieri presso lo stadio Olimpico.
Questa furia terroristica, inconsueta nella centenaria storia della mafia, non antagonista delle istituzioni ma tesa a minarne la legalità dall’interno ed a condizionarne il funzionamento attraverso compiacenze di burocrati o collusioni di natura politica, si configura da Capaci ed ancor prima con l’uccisione (Marzo 1992) di Salvo Lima europarlamentare (DC), ex Sindaco di Palermo. L’elemento scatenante o se si vuole di lacerazione del tessuto di relazioni, presunte o consolidate, con uomini delle istituzioni, è da ritenersi la conferma da parte della Cassazione della sentenza di condanne emesse nei confronti dei veritici di “Cosa nostra”.
In sostanza, veniva confermato l’impianto dell’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi processo a “Cosa nostra” firmato da Falcone e Borsellino. Recepito il loro metodo di lavoro, già contestato non solo da ambienti mafiosi, ma anche da dubbi mediatici, protagonismi intellettuali, riserve togate e vittimismi politicanti, sono saltati i nervi all’ala stragista di “Cosa mostra” che ritenendosi “tradita” o non “tutelata” da riferimenti altolocati instaurati negli ultimi due decenni di “guerre e paci” mafiose, è passata al contrattacco. E sono quelli gli anni, scandagliati da Falcone e Borsellino, del boom del traffico di stupefacenti e dei grandi appalti di opere pubbliche per circa ottocento miliardi di lire nel contesto palermitano messo a ferro e fuoco. Ma, sono stati anche anni di mattanza di investigatori, di magistrati e pubblici amministratori ad opera di sicari e killer di “Cosa nostra”.
Undici le vittime togate, otto uomini della Polizia di Stato, tre dei Carabinieri, un Prefetto, Carlo Alberto Dalla Chiesa, un Sindaco di Palermo, Giuseppe Insalaco, ed un pacchetto di delitti politici: Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana, Michele Reina, Segretario provinciale della DC, e Pio La Torre, Segretario regionale dell’ex PCI.
Sul punto c’è un apposito capitolo contenuto nella citata ordinanza costituita in undici volumi. In esso si afferma che “si è realizzata una singolare convergenza di interessi alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e di inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente voltare pagina”.
Un messaggio che va al di là delle aule giudiziarie, coinvolge l’intera società civile, ma soprattutto è un richiamo al mondo della Politica e della PA. Perché la mafia fa affari e si nutre di omertà, silenzi e compiacenze. È il suo storico ed autentico dna!