“Vogliamo di nuovo snobbare il centro solo perché non ci piace, nonostante esso rappresenti, a oggi, l’unica carta in più che possiamo giocare per tornare a vincere?”.
E’ un passaggio del saggio Costruire una cattedrale Perché l’Italia deve tornare a pensare in grande, pubblicato dalla Mondadori del 2009, che ancora oggi è una lettura gradevole, stimolante e interessante.
Ne è passato del tempo. Pochi anni, tutto sommato. Poco più di dieci. Una bazzecola. In politica, però, nella tormentata e turbinosa vita politica italiana, parliamo invece di anni luce. A quel tempo aveva appena stravinto le elezioni Berlusconi. Non c’erano i grillini. C’erano ancora Bossi e Fini. Non erano nemmeno ipotizzabili le leadership di Salvini e Meloni. Non c’era ancora all’orizzonte Matteo Renzi, che avrebbe sconvolto la scena politica nazionale, ma soprattutto il Pd e il centrosinistra. E non si pensava neanche lontanamente a Monti, alla Fornero, a Conte, a Draghi, e soprattutto al Covid.
Un altro mondo, insomma. E chissà se la pensa ancora così l’autore di quella pubblicazione, Enrico Letta, che domani sarà proclamato segretario del Pd. Una incoronazione dopo l’esilio parigino per metabolizzare la defenestrazione da Palazzo Chigi. Un brutale licenziamento operato dal fiorentino Matteo Renzi, che appena pochi giorni prima lo aveva tranquillizzato con un memorabile: “Enrico stai sereno”.
Enrico Letta ha davanti a sé un compito a dir poco complicato e difficile. Tuttavia, Letta è un persona colta e perbene, ma è anche un politico fine, esperto, preparato, stimato e conosciuto sul piano internazionale. E’ forse un po’ troppo professorale e didascalico. Magari non è un mostro di simpatia, ma non è un untuoso come Conte, sebbene curiale lo sia certamente. E’ la sublimazione del politically correct. Come afferma qualcuno con una punta di eccesso di malignità, Letta appartiene a quella razza di politici che non abbaia e non sporca.
Ad ogni modo, come dicevamo, ha un compito complesso ed ingrato. E domani si presenterà al popolo democrat come un novello Cincinnato, pronto a indossare i panni di Mosè per condurre il Pd verso la terra promessa e diventare il Messia di un Pd finalmente prospero, sereno, pacificato.
Il problema è che troverà un partito allo sbando, disorientato da un segretario dimissionario come Zingaretti, ottima persona e forse anche buon amministratore, ma di sicuro politicamente inadeguato. Tanto da impiccarsi, e con lui un partito dalla storia e della tradizione del Pd, alla figura dell’ex presidente del Consiglio Conte e di essersi politicamente appiattito sulla linea politica dei Cinque Stelle.
Matteo Orfini, già presidente del Pd, in proposito è stato icastico: “Zingaretti fa il martire, ma se n’è andato perché ha fallito la linea politica dell’alleanza col M5S e della piegatura nei confronti di Conte”.
Ad ogni modo, il Pd mai come adesso è un malato abbastanza grave. Non tanto perché diviso per correnti. In fondo, non c’è un vero partito che non le ha.
Non solo perché condizionato dai potentati locali che fanno il bello e il cattivo tempo. Tanto per intenderci, gente come De Luca.
Non solo perché è un partito che è fortemente appiattito nella gestione del potere. Alla politica il potere è connesso e non estraneo.
La vera, la più importante e decisiva questione che dilania il Pd sono la linea politica, la strategia da sviluppare, i contenuti programmatici da portare avanti. Insomma, la questione è di identità politica. Quello che ha smarrito il Pd di Zingaretti e, più in generale, nel dopo Renzi.
Christian Rocca in un editoriale su Linkiesta lo sintetizza in modo perfetto https://www.linkiesta.it/2021/03/pd-dimissioni-zingaretti : “Ora però il Partito democratico ha la grande opportunità di capire che cosa vuole fare da grande: se il valvassore di quel che rimane dei Cinquestelle, ovvero trasformarsi in una specie di Grande LeU a guida Conte e Casalino, laburista, declinista e nostalgica dei bei tempi di Conte a Chigi, oppure riprendere il filo originario del partito a vocazione maggioritaria e proporsi come federatore delle famiglie liberalsocialiste e liberaldemocratiche, anche con Renzi, Calenda, Bonino, gli ambientalisti e gli innovatori, gli elettori liberali e socialisti di Forza Italia e quelli del partito del pil e dei ceti produttivi, che sono la perfetta rappresentazione sociale e politica del governo Draghi e dei suoi ministri tecnici”.
A grandi linee questo è il nodo più importante che sarà chiamato a sciogliere Enrico Letta. Certo, dovrà far emergere anche una nuova visione del Paese e realizzare un incisivo rinnovamento della classe dirigente. Per questo ritorniamo a quel passaggio del suo saggio del 2009: “Vogliamo di nuovo snobbare il centro solo perché non ci piace, nonostante esso rappresenti, a oggi, l’unica carta in più che possiamo giocare per tornare a vincere?”.
Sarà ancora questa, con i necessari aggiornamenti e i dovuti aggiustamenti, l’idea di fondo di Enrico Letta?
Domani, quando parlerà all’Assemblea del Pd, forse lo capiremo. Forse.