Il taglio dei parlamentari è un taglio della democrazia?
Sul voto referendario ospitiamo la riflessione del prof. Armando Lamberti, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Salerno
La riforma della Costituzione che siamo chiamati ad approvare o respingere presenta, in realtà, molti aspetti critici: si possono cogliere a condizione che si voglia arrivare al “cuore” della questione.
Alla “superficie” del quesito referendario vi è un messaggio piuttosto semplice, difficile da non condividere: tagliamo i costi della politica e rendiamo più agile ed efficiente il lavoro dei parlamentari.
Al “fondo” della riforma costituzionale, tuttavia, vi sono la crisi di una certa concezione della democrazia ed una diffusa sfiducia verso l’istituzione parlamentare. Ne è conseguita una profonda distanza tra rappresentanti e rappresentati.
Uno spirito di rivalsa, dunque, anima una parte degli elettori (la c.d. antipolitica), che sempre più fanno fatica a delegare le decisioni ai propri rappresentanti.
E indicano come soluzione, piuttosto, l’idea che diminuire la rappresentanza significhi aumentare la democrazia, nella illusoria prospettiva di giungere, per tale via, alla c.d. democrazia diretta.
Ma il principale problema della modifica oggetto del referendum è proprio la riduzione della rappresentanza, quella che rischia di far scivolare l’Italia all’ultima posizione in Europa in termini di rapporto tra rappresentanti e rappresentati: un deputato ogni 150.000 abitanti e un senatore ogni 300.000 abitanti.
Senza contare, poi, che, ove la riforma venisse confermata, ben sette Regioni avrebbero un limitato numero di senatori compreso tra tre e cinque, con una notevole penalizzazione dei partiti di minoranza nell’assegnazione dei seggi e con evidenti problemi di rappresentatività dei territori. E che anche la riduzione del numero degli eletti all’estero implicherebbe un ampliamento abnorme dei rispettivi collegi.
Ancora, la logica del “taglio per il taglio” è suscettibile di alterare gli equilibri costituzionali. A fronte di un numero ridotto di parlamentari, per esempio, il “peso specifico” dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica sarebbe sensibilmente superiore: con il rischio di minare alla radice l’idea stessa di un Capo dello Stato che, come afferma il primo comma dell’articolo 87 Cost., “rappresenta l’unità nazionale”. Né va dimenticata la maggiore incidenza che, in conseguenza della riforma, potrebbero avere i senatori a vita, non eletti dal popolo, il cui voto già in altre occasioni ha determinato la sorte di governi fondati su maggioranze precarie.
Quasi un dogma, poi, può essere considerata l’equazione tra il taglio dei parlamentari e l’accrescimento della efficienza del Parlamento.
In realtà, ad una riduzione dei parlamentari corrisponde, tra l’altro, la riduzione del numero dei componenti delle attuali commissioni. La conseguenza è non solo un aggravio di lavoro che ingolfa l’attività parlamentare, ma soprattutto l’allungamento dei tempi di approvazione delle leggi.
Dunque, difficilmente assisteremmo ad una ritrovata centralità del Parlamento, e anzi verosimilmente si rafforzerebbero ulteriormente le prassi già consolidate (abuso della decretazione d’urgenza, ricorso smodato alla questione di fiducia, utilizzo frequente del maxi-emendamento, etc.) che hanno come effetto, al contrario, quello di neutralizzare il ruolo del Parlamento.
Infine, una notazione sui “costi” della rappresentanza, che già da più parti è stata formulata in questi giorni. Il risparmio complessivo conseguente alla riduzione del numero dei parlamentari sarebbe di non più di 57 milioni di euro annui (circa lo 0,007 per cento della spesa pubblica totale): un importo piuttosto trascurabile a fronte dei problemi che ne deriverebbero.
In questo campo, ragionare in termini di “costi” è pericoloso, giacché riduce la democrazia rappresentativa ad una mera voce di bilancio e dimentica che tutti i diritti, anche quelli politici, “costano”. Il buon governo delle istituzioni non si giudica sull’equilibrio tra costi e ricavi.
E’ proprio questo il punto.
Il problema del cattivo funzionamento del Parlamento è effettivo, ma la soluzione è erronea. Il potenziamento in termini qualitativi e quantitativi dei processi democratici passa, al contrario, per un aumento della rappresentanza e non da una sua contrazione.
A patto, però, che si pensi seriamente ad una riforma della legge elettorale, tale da consentire ai cittadini di scegliere realmente i propri rappresentanti. E che si trovino forme di regolamentazione delle procedure decisionali all’interno dei partiti, nonché di ragionevole finanziamento trasparente dei partiti stessi.
Al contrario, tutto ciò che va nella direzione di limitare tout court la democrazia rappresentativa ed il ruolo del Parlamento riduce, in sostanza, la sovranità popolare.
Al “fondo” della riforma, dunque, c’è, in ultima analisi, una concezione di democrazia che pregiudizialmente rifiuta l’autorità della politica in quanto tale. Ma come hanno dimostrato gli ultimi anni, l’effetto di questo atteggiamento non è affatto un automatico miglioramento delle classi dirigenti e dell’efficienza del sistema democratico. E nemmeno questa riforma del tutto episodica sarebbe in grado di garantirlo; anzi, la sua applicazione rischierebbe di aggravare la fragilità del nostro sistema giuridico e politico.
Armando Lamberti
Ordinario di Diritto Costituzionale –
Università degli Studi di Salerno