A colloquio con Maddalena Fingerle, autrice di Lingua madre

Maddalena Fingerle è nata a Bolzano nel 1993, ha studiato germanistica ed italianistica ed è ricercatrice universitaria.
Lingua madre è il suo romanzo di esordio. Pubblicato da Italo Svevo Edizioni, il libro ha avuto immediatamente una grande risonanza nel mondo dei lettori, spopolando sui social, tra i bookblogger, con commenti sempre positivi. Nel frattempo, è stato proposto tra i libri candidabili al Premio Strega ed ha vinto numerosi premi: il Premio Italo Calvino, il Premio Comisso under 35, il Premio Flaiano under 35, il Premio Città di Girifalco, il Premio Fondazione Megamark e da ultimo il Premio POP.
Se da una parte il titolo può far pensare al senso di appartenenza alla propria lingua natia e alla cura delle parole, leggendolo ci si ritrova invece in una spirale ossessiva che spinge sempre più giù, negli abissi della mente umana che distorce tutto, parole, comportamenti, emozioni. La trama si svolge tra Bolzano e Berlino ma le città sono forma degli stati mentali del protagonista: in realtà tutto ruota, e anche noi, intorno e nella mente di Paolo Prescher e prima di lui, in quella di suo padre, morto suicida dopo anni di mutismo selettivo. Attraverso il flusso di coscienza di Paolo, guardiamo il mondo come attraverso degli specchi deformanti e così la realtà assume sembianze mostruose e abominevoli.È tutta una suggestione mentale come quella delle macchine ottiche che ti illudono di vedere forme che in realtà non ci sono o sono diverse da come appaiono. Tutto il romanzo è permeato da un senso angosciante di oppressione, la mente di Paolo e quella del lettore sono squarciate, divise in due come l’identità bolzanina al tempo stesso non abbastanza italiana né abbastanza tedesca. È una identità che vorrebbe essere riconosciuta per la sua univocità e invece è costretta da norme illogiche a fare una scelta, la dichiarazione: italiano o tedesco? Tertium non datur. È in questo orribile dualismo che si gioca tutto e che il cervello di Paolo va in corto circuito.
Inizio a parlare del libro con la sua autrice, partendo dalla fine.
Lingua Madre è un libro che sorprende e sconvolge, ad un finale inaspettato si affianca il capovolgimento di alcuni, per me almeno, valori positivi come il potere terapeutico delle parole e dell’amore. È nata già così nella sua mente l’idea o è venuta fuori strada facendo la costruzione della trama?
La trama è l’ultima cosa che ha preso forma. Inizialmente avevo un’immagine, una sorta di dipinto a olio mentale e in movimento dai tratti di Lucian Freud: un uomo che si fa ossessivamente la doccia ma non riesce a levarsi lo sporco di dosso. Poi sono arrivati gli anagrammi, e quindi i nomi, poi la voce di Paolo, alla quale lavoravo da un po’, e i personaggi. Solo dopo la trama.
Lingua madre è il titolo del suo romanzo ma qui la lingua sembra più matrigna. Alla cura delle parole, qui si sostituisce una ossessione per le stesse. Esistono davvero parole sporche e, di conseguenza, parole pulite?
Lingua matrigna è una bella definizione di Stefano Zangrando (https://www.leparoleelecose.it/?p=41737) che condivido molto. La lingua è anche madre perché Paolo desidera che lo sia. Per lui le parole sono davvero sporche o pulite, è una dicotomia in cui crede e quindi esistono per davvero nella finzione letteraria.Ciò che funziona non romanzo però, ovviamente, non può funzionare nella realtà: sarebbe troppo dicotomico.
Tutto il libro è pervaso da una assenza che è una presenza invece ingombrante, quella di Biagio Prescher, il padre del protagonista Paolo, morto suicida dopo anni di mutismo selettivo. Quanto parla invece questo personaggio?
Parla a Paolo attraverso un linguaggio altro rispetto a quello verbale: gli fa l’occhiolino, scrive parole sulle cose. Ma parla anche attraverso l’idealizzazione che ne fa Paolo.
Giuliana e Luisa, madre e sorella del protagonista, sono invece personaggi ambigui. Non riusciamo a capirle bene perché le vediamo alla luce distorta dello sguardo di Paolo. Sono davvero quasi streghe cattive o c’è della misoginia nella opinione che ha di loro Paolo?
Lo sono perché la luce distorta dello sguardo di Paolo è l’unica che abbiamo; poi potrei ammettere che Luisa è il personaggio che preferisco, ma sarebbe uscire dal romanzo.
Nel libro, ad un certo punto, Paolo Prescher, il protagonista, si paragona al suo amico Jan. A lui a scuola avevano detto che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, a Jan no. Nella loro vita adulta, i ruoli sono capovolti, Jan diventa il capo. Sembra quasi che la chiave per farcela risieda altrove che nelle proprie capacità. Qual è il senso di questo capovolgimento?
Jan non è ossessionato né turbato, come invece succede nel caso di Paolo che si allontana per poi ritornare. Il capovolgimento è dovuto alla scelta inconsciamente politica di Paolo che si rifiuta di firmare la dichiarazione di appartenenza linguistica e che quindi si trova obbligato a scegliere un lavoro che non è quello che avrebbe desiderato.
Infine Mira di Pienaglossa, l’amore che non salva. Quanto può curare l’amore? E perché in questo caso invece non cura?
Quella di Paolo è un’ossessione e in quanto tale a Berlino e con Mira si capovolge, da negativa a positiva. Ma non è risolta, né accettata, è solo capovolta, può quindi tornare com’era.
La vicenda si snoda tra due città Bolzano e Berlino. Lei è di Bolzano: è biografia di una città e dei suoi abitanti la descrizione che ne fa? Qual è la lingua madre di un bolzanino? C’è?
La Bolzano del romanzo è una Bolzano romanzata ed è quella di Paolo, non la mia. Ci sono certamente elementi reali che però ho esasperato nella voce del protagonista, partendo dall’idea che il motore più interessante per questo libro dovesse essere il suo odio, che si esprime attraverso il linguaggio. Per il bolzanino Paolo la lingua madre non esiste perché non c’è una madre affettuosa; l’ipocrisia linguistica della città e quella della famiglia (padre escluso) impediscono che ci sia e fanno sì che lui la cerchi in letteratura, per esempio, ma anche lontano dalla città natale, a Berlino.
Berlino invece è ultimamente presente in molti libri italiani a rappresentare quasi una meta esistenziale. Come mai è in questo libro?
Avevo bisogno di una città tedesca (Paolo decide di abbandonare l’italiano per parlare solo tedesco) che iniziasse con la lettera B in modo da avere B-B-B. Doveva essere una città in cui si sentisse accettato per quello che è e doveva avere una forte comunità italiana; per questi motivi ho scelto Berlino.
Chiudo chiedendole qualche consiglio di lettura per l’estate, oltre – naturalmente – Lingua madre. In particolare, libri di autori ai quali si sente riconoscente per la sua formazione da scrittrice.
Non consiglierei mai il mio! Mädchen di Teresa Präauer, Altro nulla da segnalare di Francesca Valente, Tre orfani di Giorgio Vasta e I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni.(Foto di Julia Mayer)