Oggi vi presento il libro scritto da Autilia Avagliano dal titolo:DIN DON DOWN! Edizione Marlin – settembre 2020.
È letteratura femminile e lo sottolineo perché penso che le donne riescano a dare parola a quello spazio intermedio, occupato dall’emotività, tra corpo e anima. La cultura maschile ha creato, non sempre con consapevolezza, una cesura, è una ferita che nelle donne continua a sanguinare, e nessuna di loro la dimentica. Nella letteratura femminile traspare tutto questo e spesso è liquidato con termini non sempre felici: sdolcinata, emotiva, sentimentale.
Ci sono momenti della vita femminile in cui è inutile barricarsi dentro le proprie paure, la biologia si para difronte e non puoi fare a meno di attraversarla. Alla cultura femminile è lasciato l’inizio, la cura e la fine della vita biologica e tutto quello che non è guadagno economiconella vita dei singoli (lo era anche il parto finché non è diventato lucrativo). Ma gli esseri umani sono anche pensiero e le donne sanno fare spazio alla biologia, le donne sanno costruire un “nido” di parole per svelare le paure, il rifiuto, l’estraneità e poi l’entusiasmo, l’emozione profonda e la tenerezza infinità. Nel libro di Autilia Avagliano c’è tutto questo.
“La mia storia comincia un pomeriggio di fine inverno del 2000”(DIN DON DOWN! Edizione Marlin – settembre 2020 p. 9). Autilia, come molte altre donne, sceglie di non fare l’amniocentesi, ma comincia ad avere sensazioni di pericolo, le associa a mille altre cose ma non al figlio, è suo e guai a chi lo tocca,non lo permette nemmeno al suo stesso pensiero, come tante altre donne, va “senza ragione”. La Natura è la sua patria, abita come le altre femmine nel ventre della terra, sa che non può controllare la vita e che la ragione partorisce delle unità solo apparenti, che spesso sono un impoverimento e un’omologazione.
Alla nascita di suo figlio, Autilia Avagliano sperimenta sulla sua pelle il tentativo di incasellarlo con un “marchio” ben preciso: “Il dottore nella sua edotta analisi …in psicologia … in sociologia … in pedagogia in … in … in” (o. cit. p. 29). A me piace di più raccontare la realtà. E la realtà è una diversità che tutti ci portiamo dietro o come dice Walt Disney: “Più ti piaci, meno sei come qualcun altro, che è ciò che ti rende unico”.
Comincia così lo scavo dell’autrice per far spazio nella sua anima ad Alberto e quando comincia a vederne la bellezza, combatte con le unghie e i denti, femmina “animale”, porta al riparo la “specialità” di quel figlio e non permette a nessuno di sottovalutarla.
Commuove, perché trova le parole perfette per raccontarci la sua resistenza. Commuove, perché sa raccontare la gioia delle piccole cose, cui le avevano detto, il figlio non sarebbe mai arrivato. Commuove, quando rimane concentrata sul suo “tesoro” d’amore, “i piccoli gesti sono come gli aromi di una squisita pietanza: quando non ci sono, non ci pensi, ma tutto è insipido; quando ci sono, ti rendi conto che proprio non se ne può fare a meno” (o. cit. p.72). Commuove, quando vede la sua sensibilità acuirsi al punto da vedere negli occhi degli altri la compassione e diventa spontaneamente solidale.
Autilia non scappa, in realtà non vuole, fa parte di quelle donne (mi ci metto anch’io) che vivono la vita “letterariamente” e coltivano le contraddizioni, perché sanno che l’intensità delle emozioni e dei sentimenti non sono mai separati dalla carne, ci si cala dentro fino a farlo diventare un “miracolo”. Quel figlio è il centro della terra, anzi dell’universo, riabilita la sua “specialità” che diventa persona, un’identità come tante altre. Sfonda il sistema dei pregiudizi, non può eliminarli, ma può difendere suo figlio. È più facile spezzare un atomo che uno pregiudizio (Albert Einstein), ma questa storia dimostra il contrario: possiamo combattere contro una cultura che etichetta le persone per mille motivi diversi, che, non dobbiamo dimenticare, è una costruzione sociale. In particolare di questa società dell’efficienza a cui interessa, esclusivamente, la “prestazione” e tutti possono ritrovarsi, da un momento all’altro a difendersi da un’etichetta perché anziano, perché povero, perché accusato di reato, perché malato o potatore di una sindrome. Dalle “formelle” si può sempre sbrodolare e si diventa bisognosi di aiuto e di percorsi inclusivi.
La mano di Dio ci spinge verso l’alto, ma noi siamo così stupidi da sentire la diversità come vuoto e abbiamo bisogno di ritornare in terra incastrati in un mosaico che distingue ilperfetto dall’imperfetto. Autilia è una “rompiscatole”, perché la sua sensibilità rimescola le carte.
“A volte ripongo incondizionata fiducia nei neuroni specchio e penso, ingenuamente, che l’altro possa capire la tua sofferenza, il tuo dolore” (o. cit. p. 114). È l’esperienza a farci vedere o non vedere in quello specchio. Termino invitandovi a leggerlo, perché, senza dubbio, è uno spaccato di buona autobiografia.