In libreria l’ultimo libro di poesie di Antonio Donadio
Dove portano le orme, le peste, che sporcano la neve bensì, ma sono utilissime a rintracciare persone scomparse o colpevoli di delitti innominabili? Il poeta Antonio Donadio nel suo libro Il senso vero della neve (Marcelliana, Brescia, 2019) ne semina con abbondanza, a far principio dalla citazione in esergo di Montale. Ancor prima: nel suggestivo dipinto Orme di Alfonso Vitale, che impreziosisce la copertina del volume. Libro, si diceva: perché non di una raccolta di poesie sparse si tratta, ma di un libro ispirato da precise ragioni compositive e strutturali, che presiedono alla disposizione della materia in due sezioni organicamente collegate attorno a 15 temi. La prima sezione, Paesaggio con figura, presenta poesie “contraddistinte da un ritmo circolare”, ci informa l’autore nella Nota; circolare o ciclico è anche il ritorno di parole ricorrenti: il vento e la pelle, con tanto di sensazioni tattili, fanno ad esempio della n.3 una perfetta Ring- komposition. Ma si veda anche la n. 6 con la variazione dolce/ dolcezza; la n.9, con il verso incipitario “c’è sempre un nome ad indicar la strada”, cui fa da pendant l’explicit “in un angolo di strada”; la bellissima n.11: “avanza un nuovo autunno…muto quest’autunno sconosciuto”. La seconda sezione è intitolata Aritmia d’ orme: “poesie, prosegue Donadio, contrassegnate da versi e strofe ad aggregazione frammentata”. Le poesie contraddistinte dall’asterisco appartengono alla seconda sezione, come ci informa la Indicazione di lettura. Seguiamo anche noi queste tracce: segni segnali indici (o indizi): scopriamo trattarsi di orme ingannevoli e tardive (*Dell’abbandono). E ricordiamo che già agli albori della sua avventura poetica, Donadio aveva licenziato alle stampe, insieme allo scultore Vincenzo Avagliano, un prezioso volumetto che recava proprio un titolo significativo: Segni.
Ma quale è l’evento, su cui bisogna investigare? Non è agevole scoprirlo. Un pericolo mortale, infatti, è sicuramente quello dell’enigma, che si nasconde dietro le metafore sulla pagina bianca (come neve). Una inchiesta non facile, anche per la presenza della neve, che tutto nasconde e rivela, come segnalano gli ossimori frequenti: “agghiacciante solarità”; “dolce tristezza”; “immobile partenza”. Scrive Luciano Parinetto: “Ossimoro: un paradossale coesistere di opposti…La metafora, come insegna Aristotele, …rimanda all’enigma: ‘Proprietà dell’enigma è dire l’effettuale saldato all’impossibile’ (Poetica). ‘Le metafore parlano per enigmi’. ‘Dagli opposti si apprende’; ‘le sentenze più fini sono quelle che non dicendo dicono’. (Retorica). Il nesso di effettuale e di impossibile può essere solo un dire non dicendo…Il fatto è che l’enigma ha un’origine mantica: costituisce perciò il nesso di un ossimoro originario fra mondo umano e mondo divino. Il dio si presentifica all’uomo mediante l’enigma, perché la sua forma ‘vuole accennare a un salto, a un’incolmabile disparità di natura fra ciò che appartiene a un dio…e la vita propria dell’uomo…L’enigma grava sull’uomo, gli impone un rischio mortale’. Ben lo seppe Omero, che, secondo una tradizione perì per non essere riuscito a risolvere un enigma! Da Omero a Turandot, coll’enigma ne va della vita)”.
Di un bagliore accecante è la neve: e certo si instaura un’equazione tra neve e luce al punto che per la proprietà transitiva ci su può chiedere: “è là che si indovina il certo/senso della luce?”. Tracce dunque. Certo c’è un viaggio: già in esergo a Segni c’erano versi tratti da Girovago di Ungaretti. Ma torniamo al Senso vero della neve: a volte l’io poetante assiste alla “prima/ partenza”, ma di un altro (il figlio?), mentre lui resta “perso/in lontani voli”; il viaggio incute timore, se con audace trasposizione “la rotaia” è spaurita”, mentre si assiste agli “ultimi saluti di un’immobile partenza” (n.12); si parla di un “approdo finito /nel battito di un unico viaggio” nella composizione n. 13. Tutta incentrata sul tema del viaggio è la n.7*Del primo salpare. Un viaggio chiamato amore, se le calze a rete diventano nella fantasia dell’io lirico, condannato a una “raminga vita”, “ancore/per altre coste” (n.4 *Della camera da letto); se da qualche parte si rievoca un “impudico gesto fatale”; se “forse il darsi è nell’attesa/incessante senza prendersi mai”. E se a volte certi indizi smascherano la belle inconnue (*Dell’ultimo battito o dell’ultimo dono).
E si tratta, in “un mondo giostraio”, del viaggio, da sempre metafora della vita, di un esule: che rimpiange ogni mancato ritorno, come recita il titolo della n.2 della 2° sezione, dove si vagheggia “ogni sonora piazza/in ogni festa al sole”; dove appare il mare con le sue “onde d’oro”; e dove c’è la bellissima, suggestiva immagine incantata di un tu che raccoglie “perline/ colorate per ombrelli di seta/ inventati”: paesaggio fiabesco (l’infanzia è spesso evocata, ad esempio in n. 8 *Del solitario gioco a nascondino o della vecchiaia), in uno dei vertici poetici dell’intera silloge. La parola ‘esule’ troviamo anche in un altro viaggio, quello immaginato Sulla strada di Damasco , vista lontana, come la Cordoba di Lorca; e la parola esule chiude simbolicamente il viaggio ripresentandosi da sola in un versicolo univerbico e anche tipograficamente distanziato, nell’Epilogo, alla fine del libro, in una posizione che riveste la massima importanza, secondo la critica semiotica. Questo exul, condannato o destinato a una “raminga vita”, si muove tra i due poli opposti della sua geografia interiore: la neve è la suggestione di un paesaggio nordico, che sovente lascia il posto al sogno del sole e dei paesaggi marini del sud, da cui Antonio, che vive al Nord, proviene: “oh fossi io/neve fattasi mare” (n.1).
Paesaggio con figura: ma è una figura fuggevole, si indovina appena la sua presenza dietro il ‘tu’, pronome che ricorre ossessivamente quasi, a volte addirittura in corsivo o in posizione enfatica. Il tu è frequente nella poesia lirica; è il caso di Montale, di Luzi, due poeti amati dal Nostro, ma anche di tanti altri. Si può trovare un ‘tu’ rivolto a un generico interlocutore; a una persona reale o immaginaria; una persona amata, magari lontana, ma anche scomparsa; a un’entità inanimata o astratta; una realtà geografica, spesso la patria lontana. A volte può rappresentare il “doppio” dell’io, una sua proiezione. Leopardi, quando scrive A se stesso, si rivolge al cuore, che rappresenta il poeta. In questi casi rivolgersi a un tu è un modo per condurre un dialogo più intimo con se stessi, escludendo in certo qual modo gli altri. Qui a toglierci dall’impaccio sull’identità di questo pronome di seconda persona è lo stesso autore, che nella Nota ci informa trattarsi di “confronti/scontri dialettici… dialoghi con la donna amata, con il figlio bambino e poi adulto, con amici e poeti, con un altro da sé ravvisabile in tanti altri o del tutto sconosciuto. Testimonianza del montaliano, indecifrabile vivere”. Col che ci fornisce anche una dichiarazione di ascendenza letteraria e una chiave di lettura: indecifrabilità e vita; scriveva Luzi, maestro ed estimatore del nostro, per il quale la vita non è possibile comprenderla, ma viverla: “sebbene sia la nostra vita e basta”. (Vita fedele alla vita).
Nella lirica n.1 appare, oltre a una meditazione sul tempo, un titolo quasimodeo: dare e avere: “il tempo è dove sei stretto/da ritmi impassibili del dare/ e dell’avere….Dono/ dell’irrisolto poco/che ostinatamente/si detta vita.” Stilema ricorrente questo della parola ‘vita’ preceduta da un avverbio, anche in altre raccolte di Donadio e persino nel titolo di una sua silloge: Incomparabilmente vita. Il dare e l’avere allude forse a una società “stretta” e costretta da ragioni puramente economiche; si vedano anche la n. 5 e la n. 10 *Sull’accumular denaro.
C’è un’importante opposizione: quella tra terra e cielo, tra alto e basso, tra nulla e trascendente. Se la parola nulla è presente in qualche composizione (cfr. a pagina 21 e 77) il campo semantico e onomasiologico della trascendenza è fittamente affollato di occorrenze; qualche esempio: “inconfessata preghiera” (nella già citata n.11); un “piccolo dio” incontriamo nella n.13, dove l’agguato è “sacrilego”.
Oltre, in quest’ottica, è una parola tematica, appare anche in una delle consuete iterazioni, (n.7), dato che occorrono “litanie a limitar l’inganno del finito” e la postura è verso l’alto, come si evince dalla bellissima n.3 *Della favola tradita; dove lo sguardo di chi dice io nel testo è rivolto “là in alto”; la penultima poesia del libro, inoltre, contiene un’ultima strofe significativa in tal senso: “lassù immobile /ed oltre/il cielo”; là portano dunque le tracce? Un esilio anche questo? Ad avvalorare quest’impressione, di cose che rinviano a una trascendenza, ci sono improvvise, misteriose epifanie: nella poesia n. 11, ad esempio, rileggiamo il bellissimo incipit: “avanza… col passo dell’ospite inatteso”.
Ma anche nel basso, nelle regioni dell’inconscio, sotto la neve, si nasconde un tesoro, come ci segnala la n.4, dove appare forse un simbolo di fertilità, nascosto in una metafora agreste; metafora che ritorna in n. 10: “seminati a grano”.
Notevole difficoltà presenta una poesia così intensa e vibrante, che si affida alla libertà analogica in una sorta di trobar clus, un linguaggio chiuso e prezioso, vorrei quasi dire iniziatico.
Il lessico, selezionatissimo, non disdegna il recupero di tessere linguistiche leopardiane: “ detestata vecchiezza”; “siepe”; montaliane: “solarità”.
Nell’uso dei tempi verbali fa capolino il futuro, presente massicciamente in una precedente raccolta, Per le terre di Grecia (anche quello un viaggio), a indicare una speranza, o comunque un’attesa.
Donadio mantiene da sempre una inalterata fedeltà al verso libero. L’uso di un’aggettivazione sapiente svela aspetti nascosti e imprevedibili della realtà.
Un libro insomma importante, con cui fare i conti, di un poeta che si è affermato, e non da ora, come una delle voci più interessanti del nostro panorama letterario. (Fabio Dainotti)