A colloquio con Toni Capuozzo: “Non solo in Italia abbiamo leader mediocri”
Lo abbiamo incontrato durante una recente visita a Vietri sul Mare per la presentazione del suo ultimo libro “Nessuno più canta per strada” e abbiamo colto l’occasione per fare una chiacchierata con lui sulla stretta attualità internazionale
Toni Capuzzo, giornalista e scrittore, per anni inviato di guerra in numerosi fronti: Balcani, Somalia, Medio Oriente, Afghanistan. Profondo conoscitore dei conflitti in Ucraina e israelo-palestinese. E’ tra i destinatari del premio Valore 2023, conferito a professionisti e personalità di alto profilo e di grande umanità che si sono distinte nella difesa dei diritti umani. Un riconoscimento ottenuto “per il costante impegno nel rappresentare i più complessi scenari mondiali con profonda onestà intellettuale”. Lo abbiamo incontrato durante una recente visita a Vietri sul Mare per la presentazione del suo ultimo libro “Nessuno più canta per strada” e abbiamo colto l’occasione per fare una chiacchierata con lui sulla stretta attualità internazionale. Simpaticissimo, umile e cordiale come sono gli uomini di grande levatura, si è sottoposto volentieri alle nostre domande, porgendoci innumerevoli spunti di riflessione.
Impossibile non cominciare chiedendoLe un parere sulla guerra tra Israele e Hamas che sta imperversando nella striscia di Gaza, data la Sua lunga esperienza in merito. Secondo Lei dove sta la ragione?
Entrambi hanno delle ragioni ed entrambi hanno dei torti. Io ho sempre raccontato quello che succedeva lì avendo in mente due principi: il diritto di Israele a esistere e a difendersi; il diritto dei palestinesi ad avere, prima o poi, uno Stato. Apparentemente sono inconciliabili e oggi, più che mai, appare impossibile farlo, però debbono restare due saldi principi a cui aggrapparsi e attorno ai quali ragionare . E’ certo che quando due ragioni cozzano, si crea una situazione di conflitto. In quell’area è così da settant’anni.
Possiamo, secondo Lei, noi spettatori che osserviamo da lontano il protrarsi di questa carneficina, comprenderne appieno la portata?
Ci sono due elementi che non aiutano a capire per noi che guardiamo da lontano. Uno di ordine religioso. Né nell’ebraismo, né nell’Islam esiste il perdono che è invece un pilastro fondante del Cristianesimo con cui cresciamo fin da piccoli. Fa parte della nostra cultura. Questo spiega il perché di tante vendette collettive che trovano ragione fondante sul castigo piuttosto che sul perdono. L’altro elemento che ci sfugge è che quei luoghi cari alla nostra memoria religiosa (Betlemme, Gerusalemme, Monte Calvario, Getsemani) sono di dimensioni estremamente ridotte. Immaginiamo due popoli che convivono in un uno spazio ristretto. Questo è un altro elemento che spiega perché sia un conflitto di difficile risoluzione. C’è poi un’altra riflessione da fare: i palestinesi non hanno mai avuto una dirigenza all’altezza. Yasser Arafat ha avuto il merito di porre la questione palestinese all’attenzione mondiale, però con metodi discutibili e pochissima chiarezza sulla strategia. I palestinesi in passato hanno posto rifiuti su risoluzioni che se fossero oggi nuovamente proposte loro, accetterebbero sicuramente. Andando ancora a ritroso nel tempo, dobbiamo ricordare che la risoluzione 181 che l’Assemblea generale dell’ONU approvò nel 1947 che prevedeva la spartizione del protettorato inglese sul territorio palestinese in due stati, uno ebraico e uno arabo, è stata da subito rigettata dagli arabi. Spesso, parlando con alcuni amici palestinesi, dico loro che se avessero avuto un leader della caratura di Gandhi, li avrebbe portati molto più lontano e avrebbero patito molto meno. Quello che sta accadendo alle vittime civili è intollerabile, ma tutto ciò da cosa scaturisce? Che cosa ha portato ai palestinesi la mattanza del 7 ottobre? Soltanto altri lutti, altro dolore e la soddisfazione di aver fatto fuori un po’ di israeliani. Credo che un giorno ci sarà qualcuno, tra i palestinesi, che si interrogherà e si renderà conto che è necessario adottare un’altra strategia.
Potrei sapere il Suo pensiero sul ruolo dell’Italia riguardo tale situazione, in particolare la decisione di astenersi dal votare la risoluzione presentata dagli Stati arabi all’Assemblea generale dell’Onu e che chiedeva la tregua a Gaza? E’ d’accordo?
Non mi meraviglia tale decisione. Dopo la sconfitta della II Guerra Mondiale, l’Italia è sotto tutela americana. Abbiamo beneficiato del Piano Marshall, siamo stati fedeli alleati. Tuttavia ci sono stati frangenti, nel corso di questi settant’anni, in cui, pur restando fedeli, abbiamo mostrato una nostra individualità, ma c’erano figure del calibro di Andreotti e Craxi. Tutt’oggi abbiamo partecipato a poche avventure di guerra. La prima guerra del Golfo dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, ma c’era una risoluzione delle Nazioni Unite. Poi i bombardamenti sulla Jugoslavia e il Presidente del Consiglio era Massimo D’Alema, un ex comunista. Oggi abbiamo un Presidente del Consiglio che viene dall’esperienza del M.S.I. Gli allievi più indisciplinati devono essere interrogati prima e hanno meno libertà di muoversi di quanta ne avrebbe avuta un socialista o un democristiano. Oggi l’Italia è un paese molto obbediente agli stati Uniti perché è sotto esame. Non mi sorprende la decisione presa perché non avrebbe potuto fare altro.
Il conflitto russo-ucraino sembra un problema non più di attualità. Si continua a combattere, ma i riflettori internazionali adesso sono puntati altrove.
Partiamo dall’assunto che far guerra a una nazione che possiede le armi nucleari è come far a cazzotti con una persona che ha una pistola. Ci devi pensare due volte. Oggi è diventata una guerra di trincea, come il Primo Conflitto Mondiale, senza nessuna prospettiva che l’Ucraina possa prevalere.
Secondo Lei, dunque, si protrarrà ancora per parecchio tempo?
No. Prima delle elezioni negli Stati Uniti si addiverrà a un “obbligo” di negoziati. Secondo me, faranno fuori, politicamente parlando, Zelensky in Ucraina e Netanyahu in Israele e si giungerà a negoziati e armistizi, paci di malcontento. Gli Stati Uniti non possono permettersi di andare alle elezioni con due guerre aperte senza prospettive di vittoria e con costi insopportabili di perdite di vite umane.
Parlando del suo ritorno su alcuni dei luoghi di guerra in cui è stato, Lei ha affermato che “non ne è valsa la pena” di tante sofferenze e tante morti causate da questi conflitti. Eppure dobbiamo ricordare lo stretto legame tra la guerra e la nascita dei regimi democratici. Pensiamo alla I Guerra Mondiale e al crollo degli Imperi Reazionari o alla II Guerra Mondiale e alla nascita della democrazia europea. La guerra è un male sempre inutile o può, in alcuni casi, evitare un male peggiore?
Se vogliamo parlare di “guerre utili”, possiamo pensare che lo siano state quelle per la decolonizzazione in cui i territori sottoposti a regime coloniale hanno acquisito l’indipendenza. Dopo di che le guerre non hanno mai lasciato, nella mia esperienza diretta, un mondo migliore di quello che avevano trovato. Il ragionamento posto nella domanda può valere per i conflitti della prima metà del secolo scorso. Conosco solo guerre che hanno lasciato un quadro più complicato della situazione precedente, o che hanno risolto ingiustizie per crearne altre.
Un’ultima domanda. Chi vincerà le elezioni negli Stati Uniti?
Non faccio il tifo per nessuno. Un eventuale Trump 2 presenterebbe al mondo un’America più egoista e concentrata su se stessa. Dal punto di vista internazionale sarebbe come un professore che smette di insegnare. Ciò allevierebbe, probabilmente, alcune tensioni. I democratici sono noti per aver fatto tutte le guerre possibili con la loro ansia di migliorare il mondo. Sia Biden che Trump sono dei candidati improbabili. E’ difficile prevedere. E’ solo consolatorio sapere che non siamo gli unici ad avere una classe politica mediocre.