Referendum o voto politicante double-face?
Fra i diciotto Referendum abrogativi celebrati dal 1974 al 2022, l’appuntamento della prossima consultazione è la più bizzarra sul piano politico: il centrodestra con il suo non voto va a difendere la salvaguardia di normative volute dal centrosinistra che a sua volta le rinnega

Domenica e lunedì, 8 e 9 giugno, gli italiani aventi diritto al voto sono chiamati ad approvare o bocciare cinque quesiti referendari abrogativi o alcuni di essi, promossi dalla CGIL e condivisi “in toto” o parzialmente dall’intero arco dei partiti schierati contro l’attuale Governo di centrodestra. Mentre, dalle forze politiche della sponda opposta prevale l’invito a disertare le urne o di recarsi ai seggi elettorali ma senza ritirare le relative schede o di esprimere un “No”.
Il confronto politico imbastito si è consumato, soprattutto, sulle modalità di esprimere dissenso o assenso, “No” o “Si” da sbarrare sulle singole schede, piuttosto che su valenze e conseguenze di ciascun quesito. Da una parte e dall’altra sono state richiamate norme sull’esercizio del voto contenute nella Carta costituzionale. I promotori dei referendum contestano alla Premier Giorgia Meloni un comportamento poco istituzionale, per aver detto che si recherà al seggio ma non ritirerà le schede, perché sostengono che l’esercizio del voto (Art. 48) è un “dovere civico”. Mentre, è una delle facoltà di espressione di dissenso per quanto riguarda i Referendum (Art. 75), per la cui validità è previsto un quorum di votanti pari alla metà più uno degli aventi diritto al voto.
La differenza è sostanziale ed ha un senso la collocazione di ciascuno dei citati articoli decisa e voluta dai costituenti. Perché, il primo riguarda le consultazioni per le elezioni della rappresentanza nelle istituzioni democratiche ed il secondo, appostato nella Parte II, relativa all’Ordinamento della Repubblica, pone limiti di salvaguardia rispetto a possibili “golpe” di minoranze organizzate tendenti a capovolgere esiti legislativi espressi dal Parlamento.
E qui, la sostanza politicante del confronto assume contorni schizofrenici, come fa rilevare Antonio Polito sul Corriere della Sera. Perché, la leadership del maggiore partito dei sostenitori dei quesiti referendari, rappresentata da Elly Schlein, spinge al voto “per riparare errori” – sono sue parole – compiuti dal suo stesso partito autore del Job Act quando ne era Segretario ed anche Premier Matteo Renzi. Il che è motivo di doglianza di parte del PD e di sostanziale sudditanza rispetto all’iniziativa di rivalsa della CGIL di Maurizio Landini sconfitta nel Referendum del 2003 sull’articolo 18.
Tre dei quattro quesiti sul lavoro riguardano il mercato delle offerte, dei rischi di licenziamenti e reintegrazioni, le cui condizioni sono mutate e non compatibili con le attuali criticità sofferte dalle aziende e manifestate dal mondo dell’imprenditoria per carenza di figure professionali adeguate rispetto agli orizzonti imposti dalle conquiste tecnologiche.
Fra i diciotto Referendum abrogativi celebrati dal 1974 al 2022, l’appuntamento della prossima consultazione è la più bizzarra sul piano politico: il centrodestra con il suo non voto va a difendere la salvaguardia di normative volute dal centrosinistra che a sua volta le rinnega. Se c’è un senso, va cercato sulla pluralità dei quesiti per convogliare una moltitudine di elettori, eterogenea ma sufficiente, per raggiungere il tetto di un partecipante in più rispetto alla somma dei voti conseguiti dallo schieramento di centrodestra nelle ultime consultazioni politiche del 2022. Se ne capisce l’accanimento nella polemica sul voto come dovere piuttosto che come facoltà, al fine di mettere in mora o scardinare la rappresentatività del Governo presieduto da Giorgia Meloni nel cosiddetto paese reale.
Non c’è un nesso sul piano politico, né c’è stato a seguito nei nove Referendum falliti, tranne il caso di Matteo Renzi che aveva preannunziato le sue dimissioni da Premier in caso di bocciatura del Referendum concernente una riforma concepita ed approvata dalla maggioranza parlamentare che ne sosteneva il suo Governo. Ma se c’è una logica nel discorso pubblico finora sciorinato sul “dovere civico del voto”, essa richiama alla memoria la pratica della doppia morale, a seconda che si stia in maggioranza o in minoranza in Parlamento.
Nel caso specifico non resta che pensare male, e spesso ci si azzecca, all’uso strumentale di problemi del mondo del lavoro e del conferimento di cittadinanza agli immigrati residenti, per conseguire fini di cucina politicante. Come dire una furbata double-face!