E’ stato facile e persino scontato, nelle ore in cui i destini di Milano e di Roma si sono incrociati, dichiarare ad alta voce la distanza tra le due capitali d’Italia.
Lo sfioramento dei destini è avvenuto nei momenti dei bilanci di un Expo trionfale -reso ancor più mitologico dal ricordo dei prolegomeni della kermesse, che non furono proprio benaugurali- e del complicato addio di Marino, a suggello di una lunga stagione politica, giudiziaria, economica, sociale che, con leggero eufemismo, definiremmo segnata dalla contrarietà di Saturno.
Milano fa il conto del suo successo internazionale: 21 milioni di visitatori, almeno il 30% stranieri, una reputazione internazionale alle stelle, la macchina urbana oliata ed efficiente, un nuovo quartiere proiettato nel futuro come eredità di un evento che ha visto ogni persona affacciatasi ai cancelli fare felice una fila che in media è durata 3/4 ore: un miracolo. Almeno alle latitudini italiche. Roma, invece, ha messo nel frattempo in fila inettitudini di governo, tutte le Sodome e le Gomorre di questa terra, esplosioni di monnezza, criminali della città di sotto e della città di sopra, e una immagine internazionale crollata.
E’ diventato quasi automatico raccontare da parte della politica e dei commentatori alati che adesso non resta che esportare il modello Expo a Roma ed è bell’e fatta. E’ così semplice? In realtà assai meno di quanto non si pensi. L’anima di una città è fatta di molte cose, ma la prima è certamente l’esprit del suo popolo.
Milano costruisce il suo senso civico sulla qualità della sua borghesia imprenditoriale e del suo proletariato operaio: è la cultura dell’ impresa, del rischio personale, dell’essere senza rete che impasta la cittadinanza dei milanesi.
Certo, poi c’è anche la forte esperienza della buona burocrazia lombardo-veneta. Ma si tratta di un imprinting coerente con una sensibilità ed un modo della cittadinanza che è meneghino. Roma è la città “eterna”, nel senso dell’eternità della sua vocazione a coinvolgersi nel governo,
nell’amministrazione della cosa pubblica, nella dimensione “statale”, antica quanto la sua magnifica archeologia e rinnovata dalla esperienza del Papa Re. Roma e la monumentalità della sua burocrazia, il suo proiettarsi nel caleidoscopio complesso del potere pubblico, appaiono spesso un tutt’uno.
C’ è, però, un rischio che accomuna le due capitali: sia Milano che Roma oggi devono mettersi al riparo dalla tentazione di devolvere il loro destino di governo a personalità scelte dal bouquet dei manager, dei commis e dei burocrati.
La suggestione di rimuovere la politica non sembra solo moneta circolante nell’Urbe ( che pure ha fatto molto per destituire di ogni credibilità il suo ceto politico), ma comincia ad affacciarsi anche a Milano, che pure non avrebbe nulla da rimproverare alla Consiliatura uscente.
Spero che sia vicino l’avvento di una nuova stagione: quella in cui i politici ritornino a fare i buoni politici e i manager, i burocrati, i commis, ritornino a fare -bene- il loro mestiere.
Senza scambi di ruolo e confusioni.