scritto da Pino Pisicchio - 25 Gennaio 2016 14:41

Merito e politica

Da quasi dieci anni nel dibattito pubblico si è affacciata la questione delle competenze e del merito. Un contributo importante è venuto a partire dal 2008 quando Roger Abravanel diede alle stampe il suo libro sulla “Meritocrazia” , che segnò l’avvio di un confronto tra intellettuali e commentatori sulle maggiori testate italiane.

Il tema, in fondo, non era nuovo perché riprendeva il giudizio di storici come Paul Ginsbourg sul familismo amorale analizzato da Banfield, che avrebbe attraversato la storia italiana, distruggendo il riconoscimento del merito e impedendo lo sviluppo e la modernizzazione di questo nostro magnifico paese.

Oggi il tema è tornato alla ribalta con i provvedimenti della ministra Madia sul riordino della Pubblica Amministrazione. Ne siamo felici, anche perché in questo modo si torna a dare un senso a quel bistrattato e spesso inutilmente evocato art. 54 della Costituzione che, ponendo in capo al pubblico ufficiale (funzionario o eletto al ruolo dì rappresentanza) il dovere di servire lo Stato con disciplina ed onore, richiama, implicitamente il concetto di competenza e di merito.

Dunque, va bene così. Ma c’è una cosa che sorprende in questo dibattito ed è la mancanza di attenzione alla questione del merito e delle competenze nella politica.

La domanda, riducendo all’osso, è questa: ma come, si rivendica il “merito” in tutte le attività umane, lo si esige, giustamente, nel settore pubblico e poi, quando si tratta di rappresentanza politica, di persone che devono decidere del destino collettivo, ecco che ci si ferma sulla soglia e non si esige che gli eletti abbiano la competenza per adempiere adeguatamente alla funzione? È un po’ singolare, in effetti, che in un dibattito anche eccessivamente attento ad ogni battito d’ali della politica, questo tema venga eluso.

La rappresentanza politica dovrebbe essere la sintesi di tutte le competenze, anche oltre gli specifici talenti di cui ognuno, per attività di studio e profilo professionale, può essere portatore.

Invece così non è. O non è più: si pensi solo che nel 1948, a fronte di un 90% di italiani privi di qualsiasi titolo di studio, il 91% dei parlamentari era laureato ed era in grado di esercitare i ruoli di rappresentanza e di governo che portarono alla rinascita di un paese distrutto dalla guerra. Oggi i laureati in Parlamento sono solo il 68% e privi, nelle assemblee elettive nazionali ma anche in quelle locali, di qualsiasi esperienza di formazione all’esercizio di una funzione politica, un tempo svolta dalle scuole di partito, che non ci sono più.

Così come non ci sono più i partiti. E che occorra una competenza politica, oltre che la pre-condizione della moralità, nell’esercizio della rappresentanza, è cosa che si impone all’attenzione di ogni italiano. Forse sfugge a chi è in politica, sospinto da ben altri venti che non quello pulito e fresco dell’art. 54 della Costituzione.

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