Il disastro di Genova, le pecore da tosare e il ritorno nel medioevo
“Avvieremo la procedura per la revoca senza attendere le risultanze in sede penale”. E’ quanto ha annunciato ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo la riunione straordinaria del Governo, che in via eccezionale si è tenuta a Genova a seguito della tragedia del crollo del ponte autostradale.
Non sarà facile arrivare alla revoca della concessione alla società che gestisce una parte cospicua della nostra rete autostradale, Autostrade per l’Italia, e quasi certamente risulterà molto onerosa, ma il Governo un segnale forte al Paese doveva darlo. E andava dato anche a quanti gestiscono pubblici servizi, a cominciare dalle diverse società autostradali. Certo, la magistratura dovrà accertare le responsabilità penali, ma per questo occorrerà tempo. E le famiglie delle vittime, ma anche qualsiasi cittadino italiano, non possono attendere la conclusione della vicenda giudiziaria per avere delle prime, immediate risposte. Qui è in gioco la sicurezza di tutti noi e la stessa credibilità di un Paese che sta dando sempre più la sensazione anche all’estero di cadere a pezzi. Occorrono decisioni forti, costi quel che costi. Serve un cambio di passo, una rottura rispetto al passato. In questo senso, al di là di quelli che saranno gli esiti di questa procedura di revoca, quella del governo giallo-verde è la prima vera decisione che sostanzia quel cambiamento finora solo predicato.
D’altro canto, individuare e condannare i responsabili di questo disastro è doveroso, tuttavia, fin d’ora è evidente che la responsabilità per quanto è accaduto è da attribuire alla società che gestiva il ponte autostradale. E’ più che evidente come sia del tutto venuta meno la fiducia nei riguardi di questa società concessionaria da parte tanto del Governo quanto dall’ultimo dei cittadini. Ed è inutile affannarsi a sostenere che il ponte era costantemente monitorato e sicuro. Sta di fatto che è venuto giù con il suo carico di morte e distruzione. Il resto sono solo chiacchiere.
«Bisogna capire qual è stata la causa scatenante. Ma non mi si parli di fatalità, non si parli di cattiva sorte, di accidentalità». E’ quanto, d’altra parte, ha affermato in termini perentori il procuratore della Repubblica di Genova, non un cittadino genovese qualsiasi.
Se poi si leggono alcuni numeri, si rafforza la convinzione che deve essere completamente cambiata la politica delle concessioni autostradali. Prendiamo i numeri che riguardano la società Autostrade per l’Italia, che ha in concessione 3mila chilometri della rete autostradale italiana, tra cui il ponte crollato a Genova: nel 2017 ha avuto ricavi per 3,9 miliardi di euro, con un utile lordo di 2,4 miliardi di euro. Cifre pazzesche, a prescindere da quanto investito nella manutenzione e per la sicurezza. Cifre pazzesche che restano tali, a prescindere della tragedia che si è appena consumata. Cifre che danno la dimensione degli enormi profitti realizzati da società private a danno delle tasche oltre che della sicurezza di noi cittadini, ridotti a pecore da tosare ogni qualvolta ci presentiamo ai caselli per entrare in autostrada. E che sono la prova provata di quanto la politica sia stata in questi ultimi decenni complice di una ruberia legalizzata a danno della collettività. Insomma, sulle concessioni autostradali occorre davvero cambiare registro.
La tragedia di Genova, però, induce anche a molte altre riflessioni, fra questa quella che da una trentina di anni oramai si fa poca manutenzione e diverse opere pubbliche sono in uno stato di pressoché totale abbandono. Quello di Genova non è il primo ponte che viene giù, anche se è il più grande, ma c’è il fondato timore che non sarà neanche l’ultimo, purtroppo. Da qui la necessità di un costoso e coraggioso piano di messa in sicurezza del nostro territorio ma anche di una puntuale manutenzione delle opere pubbliche, delle nostre infrastrutture realizzate in quest’ultimo mezzo secolo. Nell’opinione pubblica, nel frattempo, è cresciuta, però, sempre più una sorta di idiosincrasia a costruire nuove strade e autostrade, nuovi tratti ferroviari, insomma, di opere pubbliche in genere. E anche in questo caso, la responsabilità della politica è evidente per il clima di sfiducia provocato da troppi e sistematici episodi di sprechi e corruzione, che hanno accompagnato persino la costruzione di un banale marciapiede.
Di fatto, però, sotto certo aspetti stiamo andando indietro, dritti verso un nuovo medioevo. Siamo diventati un Paese dove ogni motivo è buono per dire no, dalle grandi opere pubbliche ai vaccini. E con questi no, il declino dell’Italia è iniziato e il peggio è dietro l’angolo. Al contrario, c’è bisogno di realizzare, nella trasparenza, altre opere pubbliche, nuove infrastrutture, indispensabili per garantire lo sviluppo dell’Italia.
Ad ogni modo, dal crollo del ponte di Genova cerchiamo di trarre almeno qualche lezione anche se amara: torniamo a credere nello sviluppo, nel progresso. E alla classe politica chiediamo di fare pulizia, a cominciare dal proprio interno, e a liberarsi dai potentati economici che influenzano e inquinano per calcoli di bottega le scelte da compiere nell’interesse generale, e che detengono il controllo di quasi tutti i mass media, dai grandi quotidiani nazionali alle reti televisive. E ai politici chiediamo, infine, di non essere miopi, di guardare lontano nel progettare lo sviluppo e la crescita del nostro Paese.
In conclusione, non sarà facile tornare a scommettere con fiducia nel futuro, ma non abbiamo altre scelte se non vogliamo continuare soltanto nello sterile esercizio della lamentazione.