Astensionismo elettorale e ripensamenti da scoppole
La scarsa affluenza alle urne non ne è una variabile indipendente: ha colpito in maniera trasversale tutti ed è un richiamo per la qualità
Al di là dei numeri che premiano il centrodestra, confermano la rarefazione di proposte politiche delle opposizioni e certificano una crescita esponenziale dell’astensionismo, i risultati elettorali registrati in Lombardia e Lazio meritano una riflessione in più sull’attuale capacità dei partiti nella raccolta di consensi.
La scarsa affluenza alle urne non ne è una variabile indipendente: ha colpito in maniera trasversale tutti ed è un richiamo per la qualità del dibattito pubblico, animato in campagna elettorale su media e social e poco partecipato al momento del voto da coloro che hanno il diritto/dovere di esprimere i loro consensi.
Come freno si possono argomentare elementi di distrazione di massa alimentati dalle cronache correnti su Sanremo, anarchici e 41 bis, arresto di Messina Denaro, guerra in Ucraina e terremoto in Turchia e Siria o di attesa sulle diatribe congressuali del PD e sulle performance del Governo guidato da Giorgia Meloni.
Si tratta, comunque, di un intreccio di fatti e vicende che, viceversa, in altri momenti di affanni della storia repubblicana avrebbero prodotto scelte di indirizzo politico e di attivismo militante. L’emorragia di voti (tre milioni circa nell’insieme delle due Regioni rispetto alle consultazioni di Settembre) può essere classificata come sintomo di indifferenza o diffidenza nei confronti del dibattito politico corrente o semplicemente la conseguenza di “una campagna elettorale per addetti ai lavori”: copyright del sondagista Renato Mannheimer, avendo rilevato un’alta percentuale di elettori non a conoscenza “che ci fosse il voto”.
Sul tema, il discorso riguarda il sistema di comunicazione dei partiti e la qualità delle loro offerte politiche manifestate, da una parte, da un centrodestra con il vento in poppa di FdI e favorito dalla cosiddetta luna di miele con gli elettori del Governo, e dall’altra parte da un centrosinistra che stenta a ricomporsi, a causa di un PD, senza bussola ed in cerca di una nuova identità; travaglio nel quale è insidiato da un protagonismo, oggettivamente velleitario, esercitato sia dal nuovo corso impresso al M5S da Giuseppe Conte che da Azione/Italia Viva del duo Calenda Renzi.
Tuttavia, i numeri scandagliati dagli analisti sulla citata emorragia di voti segnano che a pagare di più lo scotto della diserzione siano state le improvvisate candidature di Letizia Moratti (Terzo Polo), in Lombardia, e di Donatella Bianchi (M5S), nel Lazio. Mentre, in termini percentuali hanno ceduto meno gli elettorati di FdI e PD, confermandosi primo e secondo posto in classifica, ed a seguire Lega FI.
Come dire che l’elettorato informato e motivato, sia pure minoritario rispetto all’intero corpo, è andato a votare preferendo alle avventure neo-pentastellate o giocate a tavolino dal “Terzo Polo” altre formazioni che, in vario modo e anche sotto sigle diverse, hanno alle spalle una cultura politica del territorio e di rappresentanza di interessi sociali motivati da ideali.
Cosicché, secondo il dettato dell’art. 49 della Costituzione, ciascuna di esse se confortata dal consenso elettorale, da sola o in coalizione, è abilitata a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Se ciò si verifica non sono gli elettori che sbagliano, come sostenuto da Carlo Calenda, per giustificare il mancato decollo del “Terzo Polo”, e non ci sono pregiudiziali ideologiche o di convenienza di potere per delegittimare aspirazioni di Governo alternative.
Sul punto anche Enrico Letta, dopo due sconfitte subite in cinque mesi, ha dovuto prendere coscienza di una semplice regola di democrazia rappresentativa, avendo detto in una intervista al New York Time che Giorgia Meloni è forte e “migliore di quanto ci aspettassimo”.
Ripensamento da scoppole? Motivi di agitazione delle acque congressuali del PD.