Samarcanda: l’angosciante fuga dalla morte attraverso i pensieri di Heidegger e Bergson
La morte e la fuga da essa nell’antico mito del Talmud, nella costante ricerca in filosofia di una soluzione alla assidua angoscia della scomparsa.
Considerazioni sulla angosciante fuga dalla morte in “Samarcanda” di Roberto Vecchioni attraverso i pensieri di Heidegger e Bergson
La morte e la fuga da essa nell’antico mito del Talmud, nella costante ricerca in filosofia di una soluzione alla assidua angoscia della scomparsa.
Samarcanda: dal mito alla canzone
Il celebre testo di Roberto Vecchioni, estratto dell’omonimo album Samarcanda del 1977, è una delle molteplici interpretazioni della molto più antica parabola della morte inevitabile, presente nel Talmud, uno dei testi sacri all’ebraismo.
La ballata tratta di un soldato, che nel mentre dei festeggiamenti successivi alla fine di una guerra, nota tra la folla una signora vestita di nero, metafora della morte, che lo osserva con una presunta malignità. Conscio del ruolo della nera signora il soldato si recherà dal suo sovrano, Re Salomone nel mito originario, richiedendo il suo aiuto, e ottenendo dunque un cavallo, per poter fuggire il più lontano possibile dalla nefasta sorte che lo attendeva. Dopo un’estenuante fuga il soldato giungerà per l’appunto nella città di Samarcanda, dove troverà però proprio la sorte dalla quale fuggiva, in questo caso la signora, che spiegherà al soldato che quella nel suo sguardo non era malignità, bensì lo stupore di averlo visto così lontano dal luogo in cui lo attendeva, Samarcanda, e il timore che non vi ci fosse arrivato per tempo.
L’inevitabilità della morte
La morale è chiara, la morte, per quanto si tenti di sfuggirla, attende l’uomo ineluttabilmente, rendendo vano ogni sforzo di sfuggire la stessa. Ma come i filosofi hanno risposto, tralasciando la sfera religiosa, a tale fatalità?
“Il fine psicologico della distrazione è l’oblio della morte.” affermava Martin Heidegger, la morte non è il momento finale della vita, ma elemento costitutivo della stessa, l’uomo è gettato al mondo con un destino già segnato, di cui è angosciosaamente consapevole, riducendo la vita ad un “esserci” , la ricerca di una vita frenetica ed inautentica nella speranza di dimenticare tale inevitabilità.
In modo pressoché analogo risponde a tale questione Blaise Pascal, con il concetto di Divertissement, traducibile in divertimento, ma più correttamente in diversione:
“Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci.”
Il più grande merito di tutte le occupazioni sociali, siano esse lavorative, familiari o ludiche, è quello di distrarre l’uomo. Per questo motivo egli si getta nel gioco, nella compagnia, nella conversazione, nell’attività lavorativa, nella guerra, in cerca di quella spensieratezza e di quella confusione attraverso le quali poter dimenticare la propria condizione miserevole. Egli non vive mai nel presente, ma in attesa del futuro. Heidegger però trova una soluzione meno evasiva del problema, egli riterrà che per uscire da questa sfera di autenticità della vita sarà necessario accettare tale angoscia, l’uomo libero dunque, conduttore di una vita autentica, non pensa alla morte bensì alla vita, e trova saggezza nella meditazione della stessa.
La visione di Bergson
Henri Bergson affermava che:
“Se la natura non ha dotato l’uomo di un istinto allo scopo di avvertirlo della data e dell’ora esatta della propria morte è perché ciò avrebbe come risultato la nascita di un sentimento di depressione suscettibile di annichilire ogni volontà d’azione e ogni desiderio elementare di sopravvivenza.”
La morte dunque non è una idea “chiara e distinta” che predisponga all’azione ma un sentimento che si esprime, più che nella paura, nell’angoscia della morte, che come tale è più terrorizzante e paralizzante. Non si può infatti aver paura dell’indistinto, di ciò che non si conosce come oggetto certo e determinato ma piuttosto provare angoscia per quella nefasta possibilità, sempre presente, di cui ben conosciamo i segni anticipatori nella corruzione del corpo che culmina nella sua fine. Il filosofo parigino poneva dunque la questione su una circostanza di impreparazione alla morte ed ignoranza della stessa. La stessa natura in nessun modo ha preparato l’uomo a tale imprescindibile avvenimento, ed è proprio in questo senso che essa si pone a noi come una nefasta possibilità, come l’incertezza originaria. Il senso stesso, rappresentato dall’incertezza e dalla possibilità, almeno temporale, di un evento assolutamente certo, trova dunque la sua soluzione in questi stessi termini, il non temere un qualcosa di così sconosciuto ed insolubile. Tale “soluzione” però dimentica una componente fondamentale dell’essere uomo: la paura dell’ignoto. In medio statvirtus:
Nella sintesi proposta da questi filosofi verte dunque una ricerca alla soluzione di un problema chiaramente insolubile, che trova però, prendendo quanto detto da ognuna delle parti , unendo tali considerazioni in un’unica “forma mentis” di “dotta ignoranza” del problema, una consapevole accettazione del limite ultimo della natura umana, e rendendo la vita , a discapito della morte, un qualcosa che , conscia della sua effimerità , trova comunque senso nel suo essere e non nel suo esserci.