Sto ripensando al piccolo dibattito sui social suscitato un mesetto fa da una mia nota titolata “Una sera coi Borbone”, trovando interessante mettere in relazione quel dibattito con le ambasce dell’Unione Europea di questi tempi.
Una parte di quella discussione verteva sulle ragioni di fondo del crollo del Regno di Napoli e delle Due Sicilie. Come fu possibile – si chiedeva qualcuno – che lo Stato italiano più ricco, meglio armato e sicuramente più indipendente della penisola si fece sopraffare da un manipolo di camicie rosse? Gli storici, ora che il dibattito sul Risorgimento si è liberato dalla retorica postunitaria, ne danno diverse spiegazioni, dalle trame oscure della massoneria alle mire della Francia, dall’auto-consunzione di un regime reazionario alla rivoluzione dall’alto di gramsciana derivazione. Per quanto mi riguarda, nel mio piccolo, ragionando con categorie politiche – non sono uno storico e non mi azzardo su questo terreno – sono convinto che i Borbone furono sconfitti perché non capirono quanto stava accadendo nella vecchia Europa dopo il Congresso di Vienna.
Pensarono che l’assetto della restaurazione legittimista, corroborato dallo spirito della Santa Alleanza, alla lunga avrebbe retto e che i piccoli moti del 20-21, il cambio di dinastia in Francia del 1830, poi ancora il Quarantotto fossero fenomeni effimeri e che tutto sarebbe ritornato come prima. Avevano sottoscritto gli accordi di Vienna e ad essi restarono fedeli fino ad immolarsi al loro albero.
Ma cosa non colsero dei fermenti del tempo? Non tanto quello liberale e delle spinte costituzionaliste, che anzi i Borbone lessero per tempo e con lungimiranza, grazie anche ad una classe dirigente del Regno illuminata ed aperta alla cultura europea. Piuttosto non compresero il fermento unitario che spingeva verso la formazione di stati nazionali in tutta Europa. Lo aveva capito, nella sua breve stagione napoletana, Gioacchino Murat, ma fu precipitoso e in breve travolto dal suo avventurismo. I Savoia invece, satelliti di fatto della Francia, colsero con molto maggiore lucidità i tempi nuovi. Per qualche decennio si barcamenarono spregiudicatamente tra fedeltà ai Patti di Vienna e ammiccamenti al movimento nazionale; poi, dopo il colpo di stato del 18 brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte in Francia, si gettarono senza più incertezze nella battaglia nazionale ed indipendentista, mettendosene a capo ed infine unificando l’Italia sotto la loro corona. Ecco, i Borbone non afferrarono che era il tempo degli stati nazionali e furono sconfitti. Nella storia, alla lunga, vince sempre chi sta in sintonia con le spinte profonde del tempo.
Ma torniamo all’oggi. Quando, nell’immediato dopoguerra, l’Unione Europea è stata concepita, poi preparata dagli Accordi dell’acciaio e del carbone (CECA) del 1951, quindi rafforzata con la costituzione del Mercato Comune Europeo (MEC, 1957) , infine fondata a Maastricht nel 1992, gli Stati nazionali erano ancora i protagonisti della scena geopolitica del continente. L’Unione Europea è pertanto fondata su patti giuridici tra Stati nazionali. Sono stati quest’ultimi a rinunciare a parte della propria sovranità a vantaggio dell’Unione.
Ora l’ondata sovranista e populista che attraversa l’intero Occidente pare spingere verso un ritorno all’autonomia degli Stati nazionali. A mio avviso si tratta di una sorta di effetto ottico. La restaurazione degli Stati nazionali ottocenteschi non è all’ordine del giorno. Lavora piuttosto nel sottoterra europeo la talpa del regionalismo. Ogni tanto caccia fuori la testa – Catalogna, Wallonia, Paesi Baschi, Scozia, Irlanda, Padania… – poi se ne torna sotto terra; ma c’è, scava e poco alla volta sta erodendo il terreno sotto i piedi degli Stati nazionali e dell’attuale U.E., che ne è una propaggine.
Chissà quando, ma l’Europa degli Stati nazionali sarà vinta dai regionalismi. E politicamente vincerà chi prima e con più consequenzialità coglierà, interpreterà e accompagnerà questo sbocco.