Era ancora fresco d’inchiostro il forte editoriale di Eugenio Scalfari pubblicato domenica 19 febbraio su “La Repubblica” quando Matteo Renzi, nel corso dell’Assemblea del PD, nonostante alcuni tentativi di mediazione, ha irrevocabilmente rassegnato le dimissioni da segretario del partito.
“C’è bisogno di valori, non potete distruggere il partito” aveva tuonato Scalfari; ma non è bastato per evitare ciò che poi è accaduto.
Questa è, purtroppo, la conseguenza di una vicenda che da tre anni ha visto schierate su posizioni contrapposte due culture e tradizioni politiche: quella del partito giovane, pragmatico, moderno, votato al rinnovamento e avverso alle paludi della stagnazione, che ha visto in Matteo Renzi un leader carismatico, votato con largo consenso nelle primarie. Quel Renzi che, pure non venendo da elezioni politiche, fu poi designato a formare il Governo e a cambiare l’Italia.
Partito, leader e governo che per tre anni si sono scontrati con una minoranza interna, capeggiata dai vecchi leader (vecchi non solo per età e militanza politica, ma anche per mentalità) abituati a infinite discussioni, interminabili approfondimenti, che quasi mai si concludevano in attività fattive volte alla soluzione dei problemi dell’economia, del lavoro, del benessere sociale, ad una seria azione di contrasto all’evasione fiscale, al contrasto degli scandali e delle lobby e delle consorterie che pesano come macigni sulla decisioni dei governi, al contenimento e alla riduzione del debito pubblico, al contrasto del malaffare, delle ruberie, alla riduzione degli scandalosi privilegi che si annidano in tutti i meandri della amministrazione pubblica.
Tutte cose delle quali si sta parlando da anni senza mettere in campo interventi seri e concreti, tutti problemi che troppo spesso si è tentato di risolvere solo con grandi proclami che alla fine si sono dimostrati inutili enunciazioni: e tutto ciò grazie alla “vecchia” politica degli eterni indecisi, dei parrucconi abituati a parlare e a non concludere.
L’unico a tentare seriamente di cambiare velocemente le cose è stato Matteo Renzi che, con la sua forte determinazione, in maniera talvolta arrogante, ha costituito la vera novità degli ultimi anni di amministrazione dello Stato; e qualche risultato, nonostante le forti opposizioni esterne ed interne al suo partito, l’ha ottenuto.
Ma Renzi, nonostante la sua vigoria, è stato purtroppo sconfitto dai personaggi della vecchia politica, che non l’hanno mai accettato, ma che non hanno avuto mai il coraggio di fare un passo indietro, prendere atto della loro debolezza e trarne le conseguenze. In pratica, nonostante la loro debolezza, avevano inteso costituire una opposizione all’interno dello stesso partito, illudendosi, in tal modo, di sfiancare Renzi e costringerlo ad accettare il loro modo di fare politica.
E sono andati avanti a forza di ricatti e boicottaggi, senza alcun rispetto del gioco democratico: si parla, si discute, ci si accapiglia, ma alla fine si vota, e le minoranze accettano il volere della maggioranza e si adeguano. Ma nel PD di D’Alema, Bersani, compagni questa regola non vale, non è valsa. E questo ha determinato le conclusioni dell’Assemblea del 19 febbraio durante la quale Renzi, insieme a tanti altri, ha tentato fino all’ultimo di ricucire, di ragionare, di accettare le opinioni della minoranza la quale, con piglio tracotante, l’ho messo con le spalle al muro dandogli dei diktat ricattatori che, ovviamente, Renzi non poteva accettare. E, da uomo di parola, si è dimesso nel corso dei lavori e, da segretario dimissionario, non ha nemmeno replicato alla fine dell’assemblea.
Ma quei ricatti ai quali Renzi non ha voluto sottostare, continuano, con l’aggravante che, nonostante l’ex premier, proprio per evitare una scissione, abbia fatto un passo indietro dimettendosi, oggi le minoranze PD ancora lo accusano, incredibilmente, di essere lui l’artefice di una possibile scissione.
Staremo a vedere cosa riserva il futuro: ma le previsioni non sono rosee.