scritto da Nino Maiorino - 28 Ottobre 2019 13:35

Figli di un Dio minore

foto tratto da profilo FB

Non crediamo che sia una utopia, una illusione, aspirare che in un paese civile e democratico tutti siano beneficiari di uguali diritti, siano obbligati agli stessi doveri, siano sottoposti alle stesse norme e beneficiari delle stesse tutele, che siano ricchi o poveri, nativi o assimilati, “erga-omnes”, come correttamente direbbe un giurista.

Purtroppo, anche nei paesi più civili, come ci illudiamo sia il nostro, tali regole sembrano cose irrealizzabili, in quanto le vite della maggioranza della popolazione sembrano regolate dal potere: chi più ne ha, meno sembra disponibile ad essere sottoposto ad esse, chi ha molto potere ha più possibilità di sottrarsi alle regole che non gli aggradano ed essere maggiormente beneficiato da quelle che lo gratificano.

Ovviamente ogni regola ha la sua eccezione specialmente se riferita ai più potenti; tanti sono gli uomini appartenenti a tale categoria che non utilizzano il loro “status-quo” a discapito degli altri, prevaricando chi non ha la possibilità di aspirare agli stessi; ma questa netta minoranza di potenti non fa testo se non per riconoscere la loro correttezza di comportamento.

Tanti sono gli esempi a sostegno di queste semplici e banali considerazioni, ma citiamo solo due casi, quelli di Alitalia e Whirlpool, eclatanti e scandalosi specialmente per il nostro governo, e non solo quello in carica, che ha ad essi riservato comportamenti opposti.

Parlare ancora di Alitalia è per noi cronisti un fastidio: da anni denunciamo inutilmente questo scandalo, che potrebbe cessare con un semplice tratto di penna, vale a dire la constatazione che la compagnia è oramai decotta, in costante perdita da decenni, per la quale noi italiani abbiamo pagato miliardi per tentare di tenerla in vita, sette nel giro di sette anni, aggiungendo centinaia di milioni pagati ai vari risanatori, commissari straordinari, super-manager, che da decenni sono al capezzale di questa moribonda per la quale già anni addietro si sarebbe dovuto dichiarare forfait e portare i libri in Tribunale.

E una rapida ricostruzione di questa vicenda conferma tutto ciò.

Già nel 2008 Alitalia presentava una situazione economico-finanziaria disastrosa, da anni evidenziata dagli analisti economici.

Era allora Premier Silvio Berlusconi che, da buon imprenditore, si attivò per trovare un possibile acquirente che comprasse la compagnia; un passaggio obbligato che andava fatto.

La Cai – Compagnia Aerea Italiana spa, holding finanziaria attiva nel trasporto aereo, presentò una offerta vincolante per l’acquisizione dei soli beni e delle risorse positive dell’azienda, cioè della sola parte attiva di Alitalia, denominata la “good-company”, previo lo scorporo dei settori passivi che andarono a confluire in una “bad company”, una società che si accollava la spazzatura e i settori in perdita.

Ovviamente le perdite sarebbero state ripianate da “pantalone”, vale a dire le finanze italiane, alias i contribuenti.

A dicembre 2008 si concluse l’operazione e CAI sottoscrisse il contratto di acquisto degli “asset – risorse positive” di Alitalia (tra cui Linee Aeree Italiane SpA) per circa 1 miliardo di euro.

CAI era una cordata promossa dal governo composta da una ventina di illustri imprenditori italiani che avrebbe tentato di ristrutturare e rilanciare il comparto aereo della società, prevedendo anche la riassunzione dei circa 12 mila dipendenti della vecchia compagnia.

Ma subito dopo alcuni di questi imprenditori, rendendosi conto degli ostacoli da superare e delle difficoltà di poter amministrare una società ex-pubblica con criteri privatistici di efficienza, si tirarono fuori dal progetto.

Nell’attesa che la nuova società avviasse la ristrutturazione, Il governo chiese un “prestito ponte” di 300 milioni per ovviare alle necessità di cassa più urgenti. Ma la UE bocciò l’intervento, considerandolo un aiuto statale ad una società privata. E il governo chiese i 300.milioni dalla “bad-company”, cosa che non è mai avvenuta; quei quattrini ce li ha rimessi il povero “pantalone”; e fossero solo quelli!

CAI forte di quella ricapitalizzazione calcolò prima di ogni altra cosa degli esuberi di personale, circa 7000: ma i sindacati disotterrarono l’ascia di guerra; in sostanza, tutelavano solo se stessi in quanto nella cattiva gestione del personale dell’Alitalia essi avevano sempre avuto un ruolo di primo piano, e purtroppo continuano ad averlo.

Frattanto alcune scelte strategiche fatte in quei primi anni affossarono quasi subito il progetto di rilancio, come, ad esempio, la riduzione delle tratte intercontinentali, (le più remunerative), a favore di molte tratte di breve e medio raggio, nelle quali la compagnia era diventata leader, senza considerare il forte sviluppo delle tratte ferroviarie ad alta velocità, che avrebbero preso il sopravvento, né le compagnie Low-cost, che imperavano.

Il 2011 è l’unico anno in cui Alitalia chiuse il “miglior bilancio” (si fa per dire) della storia CAI, con una perdita di “soli 69” milioni (circa 140.miliardi delle vecchie lire).

L’anno successivo Alitalia perdeva oltre 600 mila euro al giorno, e chiuse l’esercizio 2012 con una perdita di 280 milioni, e l’anno dopo superò i 500 milioni.

Nel 2013 Alitalia di nuovo vicina al fallimento e il Cda, presieduto da Roberto Colaninno, imprenditore di grandi capacità, dopo aver concluso un nuovo aumento di capitale da 300 milioni, sempre con i soldi di “pantalone”, si dimise: si rese conto che risanare una società nella quale imperava lo zampino dello Stato e dei sindacati era impossibile.

Il governo fu quindi costretto a cercare un altro partner, e nell’agosto 2014 si fece avanti Etihad Airways (la compagnia aerea di bandiera degli Emirati Arabi Uniti)    che acquisì il 49% di Alitalia, rifondendo nelle casse di Alitalia altri 565.milioni di euro.

Fu tutto inutile perché anche quell’anno Alitalia chiuse con una perdita di 580.milioni, vale a dire si era mangiato il capitale rifuso dagli emirati e anche qualcosa di più.

Comunque notevoli i tagli alle spese riportarono le perdite sotto i 200 milioni: 2000 esuberi di personale, riduzione delle tratte relative al breve e medio termine, e attacco deciso a molti oneri finanziari iscritti nel bilancio. Ma nemmeno tali interventi risultarono sufficienti, ed Etihad si defilò.

Arriviamo, così, ai giorni nostri: uno dei maggiori scogli da superare sono ancora i costi del personale ed è pacifico che cui le trattative tra la compagnia e i sindacati si fanno difficili a causa degli esuberi.

Nell’aprile 2017 la compagnia e i sindacati firmano un preaccordo sul nuovo piano di ristrutturazione economico dell’azienda (riduzione degli esuberi del personale di terra da 2027 a 980, cassa integrazione straordinaria per due anni con integrazione dei relativi fondi, riduzione all’80% della retribuzione) da sottoporre al referendum dei lavoratori.

Il referendum, manco a dirlo, vede una netta vittoria del no: il 67% dei lavoratori Alitalia boccia il preaccordo per la ricapitalizzazione della compagnia, portandola così verso l’amministrazione straordinaria.

L’amministrazione straordinaria di una azienda è una cosiddetta “procedura concorsuale”, vale a dire una procedura pre-fallimentare che si utilizza per le grandi imprese, e sostanzialmente tende di ridurre il potere degli amministratori ordinari sottraendo loro alcune prerogative finalizzate al risanamento dei conti e alla conservazione del patrimonio produttivo.

Subito dopo il referendum il Cda della compagnia richiede ufficialmente l’ammissione alla procedura, che prevede la nomina di tre commissari e la richiesta di un prestito ponte a Bruxelles di circa 600 milioni di euro per garantire la continuità aziendale almeno per i prossimi sei mesi.

Vennero nominati tre commissari, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari, tuttora in carica, che auspicarono lo sviluppo un nuovo piano aziendale entro quell’estate.

A fine 2019 siamo ancora nelle stesse condizioni.

Come si fa a non chiedersi: a chi giova? I Commissari sono ancora in carica, il piano straordinario, a distanza di due anni, ancora non c’è, Alitalia continua a volare e a perdere, e lo Stato continua a rimetterci milioni di euro per lasciarla sopravvivere, a esclusivo beneficio del personale e dei Commissari, che continuano a percepire emolumenti e appannaggi senza cavare un ragno dal buco: i dipendenti si sono ridotti da 20.mila a 11600, e Lo Stato ci ha rimesso in sette anni 7 miliardi, grazie a Berlusconi, Prodi, Letta, Renzi, Conte e compagnia bella, per mantenere in vita la cosiddetta “Compagnia di bandiera”, la quale una bandiera, in verità, ce l’ha: quella della inefficienza.

E veniamo, ora, alla vicenda opposta, vale a dire quella della Whirlpool di Napoli, oramai destinata alla chiusura, col rischio che gli attuali circa 410 dipendenti perdano il lavoro.

La Whirlpool Corporation è una multinazionale statunitense, fondata nel 1911, grande produttrice di elettrodomestici di fascia medio-alta; in Italia ha parte del capitale di marchi tradizionali come Ignis, Indesit, e altri. Nel fare investimenti in Italia la Whirlpool acquisì lo stabilimento di Napoli, che ora ha deciso di dismettere cedendolo alla svizzera Prs di Lugano che produce container refrigeranti.

La patata bollente della chiusura dello stabilimento della Whirlpool di Napoli, ora nelle mani del nuovo Ministro del Ministero dello Sviluppo Economici, Stefano Patuelli, se la trovò il predecessore Luigi Di Maio il quale non seppe far di meglio che blandirla con la erogazione di cospicui contributi per scongiurare la cessione; quella della Whirlpool partenopea è una delle centinaia di crisi che Di Maio non ha risolto, baloccandosi tra dichiarazioni roboanti, promesse e concessione di contributi, salvo a fare il viso duro e battere i pugni sul tavolo quando si accorse che le controparti non erano disponibili ad accettare le sue richieste.

E infatti la multinazionale degli elettrodomestici, dopo più di un anno di tavoli di incontri, sit-in, promesse e proteste dei lavoratori, alla fine ha annunciato la vendita del sito di via Argine a Napoli, con 410 lavoratori.

E’ chiaro che se una società cede uno stabilimento è per motivi economici (alias: mancato rendimento) e se un’altra l’acquista lo fa certamente per motivi strategici, logistici, ma soprattutto economici, il che sta a significare che se l’acquirente Prs ha deciso di acquisire lo stabilimento napoletano certamente intende riconvertirlo per produrre in Campania i suoi container refrigeranti.

Saranno riutilizzati gli operai? Questo è il dubbio, legittimo, anche in considerazione del fatto che la Prs è una “Start-Up”, vale a dire una azienda giovane che potrebbe non avere adeguata esperienza imprenditoriale e saltare da un momento all’altro; e chi ne pagherà le conseguenze saranno proprio i 410.dipendenti che già vedono in pericolo il loro lavoro. E i 17 milioni di euro offerti come sgravi fiscali dall’ex ministro Di Maio non garantiscono a lungo la sopravvivenza dello stabilimento napoletano.

Vedremo come andrà a finire questa triste vicenda, e le centinaia di altre analoghe che il nuovo Ministro Patuelli dovrà risolvere.

Ma frattanto un quesito sembra legittimo: ma perché lo Stato continua a finanziare la decotta Alitalia con milioni di Euro (finora ci ha rimesso 7.miliardi) e lascia i 410 dipendenti della Whirlpool al loro destino?

E quali e quante responsabilità hanno i sindacati nelle due vicende?

Perché i dipendenti dell’Alitalia continuano a fare il bello e il cattivo tempo e quelli della Whirlpool vengono lasciati in balia di loro stessi?

Sono forse figli di un Dio minore?

Classe 1941 – Diploma di Ragioniere e perito commerciale – Dirigente bancario – Appassionato di giornalismo fin dall’adolescenza, ha scritto per diverse testate locali, prima per il “Risorgimento Nocerino” fondato da Giovanni Zoppi, dove scrive ancora oggi, sia pure saltuariamente, e “Il Monitore” di Nocera Inferiore. Trasferitosi a Cava dopo il terremoto del 1980, ha collaborato per anni con “Il Castello” fondato dall’avv. Apicella, con “Confronto” fondato da Pasquale Petrillo e, da anni, con “Ulisse online”.

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