Mettiamoci d’accordo. Non è che a te stia antipatico Zaia, o Fontana, o De Luca e le Regioni non vanno bene, quindi bisogna tornare allo Stato centralista. Né che ti stia simpatico il tuo Presidente della Giunta Regionale e allora è lo Stato che non va bene e bisogna andare verso un federalismo spinto. Anche perché può sempre succedere che fai la battaglia per limitare i poteri dei Presidenti delle Regioni e poi ti ritrovi De Luca o Zaia a Palazzo Chigi. Ragionare sulla base dei propri sentimenti o delle proprie posizioni politiche contingenti non aiuta a capire i problemi istituzionali. Meno che mai a trovarvi soluzioni. Proviamo perciò a ragionare a prescindere da chi oggi governa le varie Regioni e lo Stato centrale.
Non c’è ombra di dubbio che, sotto i colpi della pandemia, l’impianto riformato del Titolo V della Costituzione abbia manifestato tutti i suoi limiti. Decido io, decidi tu, ma no, c’è pure quell’altro, e quell’altro ancora, e si è generato un caos tattico nucleare.
Peraltro tra non molto, il prossimo 31 gennaio, scadrà lo ‘stato di emergenza’. Il Capo del Governo ed il Ministro della Salute non potranno più procedere a botte di DPCM o di DM. Tutt’al più potranno fare ricorso ai Decreti Legge, che tuttavia non sono atti monocratici, ma collegiali del Governo e in tempi in cui la maggioranza si tiene col cerotto – ammesso che a febbraio starà ancora in piedi – sarà tosta prendere decisioni tempestive e di immediata eseguibilità. Le Regioni, per parte loro, tenderanno naturalmente ad occupare gli spazi lasciati dalle incertezze decisionali dello Stato centrale e ad assumere un ruolo ancora maggiore dell’attuale. Un bel garbuglio.
Prima o poi, tuttavia, dal Covid verremo fuori e si tornerà all’ordinarietà. Sarà allora che andrà riconsiderato il Titolo V.
Le posizioni oscillano tra neo-centralisti e federalisti.
Partiamo dall’Unità d’Italia, 17 marzo 1861. Il Regno d’Italia nacque sotto il segno del centralismo gerarchico-piramidale, replicando la struttura dello stato napoleonico: il Re capo dell’esecutivo oltre che dello Stato, ed una catena di comando che dal Re, discendendo per li rami, arrivava fino ai Comuni, amministrati da sindaci nominati dai prefetti. Nessuno spazio per le autonomie locali, solo decentramento amministrativo del potere centrale. Poi, poco alla volta i sindaci divennero elettivi (1889), il corpo elettorale si allargò e la Camera dei Deputati assunse pari rilievo statutario rispetto Re nella fiducia conferita ai governi. Ma pur sempre di uno Stato centralizzato si trattava.
Il ventennio fascista prima soffocò gli spazi di democrazia decentrata maturati nei sessanta anni precedenti, infine abolì la democrazia tout court.
Era stato troppo semplice per il Duce impossessarsi dell’Italia intera ‘marciando’ sulla capitale, lì dove tutto il potere era concentrato. Comprensibile perciò che i padri costituenti abbiano concepito la Repubblica come uno Stato a struttura amministrativa decentrata, con la previsione dell’istituzione delle Regioni, elettive così come le Province ed i Comuni.
Ed arriviamo al 1970. Finalmente, dopo ventidue anni di gestazione, nacquero le Regioni a statuto ordinario; quelle a statuto speciale erano nate nei primi anni del secondo dopoguerra. I nuovi Enti fino agli anni ‘90 vivacchiarono all’ombra del Parlamento e del Governo nazionali, pur rosicchiando passo dopo passo poteri sempre più rilevanti.
Anni ‘90: fine della guerra fredda, tangentopoli, crollo della prima repubblica, esplosione del secessionismo leghista. Il tandem lumbard – Umberto Bossi sul terreno politico e Gianfranco Miglio su quello culturale – ottenne un consenso strabiliante al Nord al grido di Roma ladrona e di Mezzogiorno parassita. La spinta del separatismo diventò minacciosa.
Fu istituita quindi una commissione bicamerale per la riforma della costituzione. Un anno di lavoro sotto la presidenza di D’Alema portò quasi al traguardo, ma fallì sul suo filo. Restarono solo studi e propositi, sia pure interessanti i primi e apprezzabili i secondi. Si salvò però la Riforma del Titolo V .
Detto a latere: non so come possa essere venuta in mente a editorialisti di primo piano nazionale l’attribuzione alla sinistra della riforma del Titolo V. Certo, la sinistra, come la destra ed il centro, concorsero a trovare quella sintesi, ma la spinta vera venne dalla Lega.
Fatto sta che, dall’otto novembre del 2001, approvata in marzo dello stesso anno, è entrata in vigore la Legge Costituzionale 3/2001 di Riforma del Titolo V. Da allora la Repubblica italiana ha una struttura semi-federale, che comporta una divisione delle competenze, alcune di prerogativa esclusiva dello Stato centrale, altre di prerogativa esclusiva delle Regioni, altre di ‘competenza concorrente’.
E qui, nella pandemia, è cascato l’asino: la sanità è una delle competenze ‘concorrenti’. Si è detto a questo riguardo di una dual governance sanitaria, ma la partita non è solo tra Stato e Regioni, anche i Comuni hanno un ruolo ed una responsabilità nella tutela della salute dei cittadini. Quanto tale assetto istituzionale abbia concorso a complicare la gestione dell’emergenza pandemica è sotto gli occhi di tutti. Peraltro problematiche analoghe si sono verificate anche in Brasile, in Messico, negli USA, in India, in Germania, in tutti gli stati a struttura federale. Comprensibile perciò che ci sia una parte consistente della classe dirigente e del pensiero giuridico del nostro Paese che oggi chieda un ritorno alla stato centralistico ed al ristabilimento di una catena di comando di tipo gerarchico-piramidale, quanto meno nelle emergenze. Le buone soluzioni però, nella storia, non si sono mai trovate tornando al passato.
7.12.2020 – By Nino Maiorino – Il problema sta proprio nel Federalismo concorrente della Sanità, che in questa fase è esploso, ma verso il quale negli anni precedenti probabilmente c’è stata, da parte di tutti, una scarsa attenzione; se fossimo stati meno distratti, ci saremmo accorti di tanti sperperi dovuti proprio all’eccesso di poteri conferiti alle Regioni, ad esempio quello degli sperperi di miliardi di danaro pubblico per costruire ospedali mai aperti, ora quasi cadenti, vedi ad esempio quello che è accaduto in Calabria: le immagini mostrate nella trasmissione di Giletti “Non è l’arena” di domenica 6 dicembre sono raccapriccianti. Oggi questo eccesso di poteri regionali andrebbe abolito, e invece si parla di Federalismo differenziato che non risolve nessun problema, se non di conferire maggiori poteri alle Regioni già ricche (quelle del Nord) e penalizzare ulteriormente quelle cenerentole (principalmente quelle del sud). Bisognerebbe mettere mano ad una sostanziale modifica ai poteri eccessivi delle Regioni e riportare la centralità in questo settore.