Autonomia differenziata, pasticcio legislativo ed intrighi elettorali
Sull’attuazione della relativa legge, che porta il nome del ministro Roberto Calderoli, circolano ipocrisie e contrattazioni negli atteggiamenti degli schieramenti su essa contrapposti ed all’interno delle singole forze politiche in campo
Nel corrente discorso politico sull’autonomia differenziata ciascuna opinione può essere legittima ed opinabile rispetto alle capacità degli strumenti in essa contenuti di recuperare o aggravare il divario storico di sviluppo economico e sociale tra i territori del Nord ed il Sud del Paese.
Sull’attuazione della relativa legge, che porta il nome del ministro Roberto Calderoli, circolano ipocrisie e contrattazioni negli atteggiamenti degli schieramenti su essa contrapposti ed all’interno delle singole forze politiche in campo.
Il dato incontrovertibile è che si tratta di una legge di procedura che ha le sue radici nel titolo V della Costituzione riformato nel 2001, rispetto al testo steso dai costituenti del 1948. Ne sono stati promotori partiti e compagine di Governo di centrosinistra, dalle cui agende è stato poi rimosso fino al 2018 il tema della sua traduzione in procedure.
Se ne è avviato un approccio con il Governo Gentiloni, su richieste e sollecitazioni delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna (le prime due rette da Governatori espressi dal centrodestra e la terza dal centrosinistra), mediante pre intese per il trasferimento di ulteriori competenze, ma in assenza di una cornice legislativa per l’attuazione del dettato costituzionale relativo alla determinazione dei livelli essenziali di prestazioni (LEP) propedeutici per dare vita ad un equilibrata autonomia differenziata.
Come dire che ci si stava incamminando su una sorta di procedura “aum aum” (mutuata dal gergo partenopeo) anche senza passaggi parlamentari. Le intese non hanno avuto seguito per fine legislatura ed avevano suscitato interesse anche da parte di altre Regioni a statuto ordinario del Centro, Nord e Sud della penisola, senza alcun clamore mediatico e mobilitazione di piazze per la salvaguardia dell’unità politica, amministrativa, economica e sociale della Nazione e per scongiurare un ulteriore impoverimento del Mezzogiorno.
Allora, come ora, ce ne erano le premesse, stante le diverse potenzialità fiscali e di autofinanziamento di prestazioni e di infrastrutture in una Italia storicamente differenziata. Il settore della sanità, in cui le Regioni hanno maggiore competenza, rappresenta “una sorta di ‘cartina al tornasole’ che mostra quanto sia difficile coniugare l’autonomia regionale con la riduzione delle diseguaglianze in presenza di stringenti vincoli di finanza pubblica”.
Lo affermano e lo documentato, con dati relativi alla spesa pro capite per la sanità e per quella della pubblica amministrazione, Vittorio Daniele e Carmelo Petraglia, docenti, rispettivamente, di politica economica e di economia politica, autori di un documentato saggio su “L’Italia differenziata” e su “Autonomia regionale e divari territoriali”.
Il punto di partenza già differenziata, su cui dovrà essere calata la citata legge Calderoli, più evidente, e che fa notizia, è proprio quello delle disparità della spesa per la sanità e per la pubblica amministrazione, avendo entrambi, in termini di fruizione di servizi, più rilevanza per i cittadini.
I relativi dati elaborati dal MEF e dall’Agenzia di coesione sui conti pubblici territoriali configurano “tre Italie”: per la sanità la spesa corrente sulla media nazionale nel periodo 2015/2022 è stata di 2.070 euro per abitante al Nord, 2.002 al Centro e 1.937 al Sud; per la PA nel periodo 2016/2021 è stata di 15.229 al Nord, 16.423 al Centro e 12.160 al Sud.
Si tratta di differenze imputabili alle normative fiscali e di devoluzione di competenze dell’attuale sistema istituzionale.
Sull’istituendo assetto regionalistico, configurato come “spacca Italia” da chi ne contesta l’attuazione ed esaltato da chi vi attribuisce aspetti propulsivi di sviluppo competitivo, pende l’incognita degli esiti della Consulta su una richiesta di Referendum abrogativo e su eccezioni, promosso e sollevate, da partiti e Regioni a conduzione di centrosinistra.
Su esso non mancano riserve anche da parte di partner della compagine governativa di centrodestra, tranne la Lega, che frenano sulla devoluzione, possibile, di materie di interesse nazionale o di rilevanza internazionale, ancor prima di definire e dar corso ai LEP, per la cui attuazione si stima un costo incompatibile con le attuali condizioni dei conti dello Stato.
Il che vuol dire rimando a futura memoria della prevista perequazione, così come è accaduto con la riforma del titolo V della costituzione: concepita in clima di marketing elettorale e congelata, per ragioni di opportunità politica, dalle stesse forze che l’avevano promossa. Se ne sono lavate le mani per non cadere nelle divisive trappole delle contrapposizioni Nord/Sud.
E sono le stesse forze politiche, meglio dire i loro eredi, che ne contestano l’attuazione attraverso la promozione di un Referendum abrogativo della legge di procedura rispetto ad dettato costituzionale. Ne contrastano l’iniziativa i partiti dell’attuale compagine governativa di centrodestra, che non hanno votato la riforma, compresa la Lega che ora se ne intesta la legge di attuazione.
Al di là degli slogan e del marketing posto in essere sul divario Nord/Sud, a seconda delle stagioni politiche di tendenza, si polemizza su un pasticcio legislativo senza anima politica. Ripudiato o condiviso, i suoi nodi sono rimessi alla lavoro chirurgico della Consulta. A prescindere dai balletti di partiti sempre più votati alle sopravvivenze elettorali.
Caro Eugenio, la vera “Autonomia Differenziata ” da tempo esiste dal “Pensiero politico all’ azione Politica Amministrativa, provocando una “scissione” tra il Cittadino e l’ Istituzione Rappresentativa, che si materializza nel preoccupante Astensionismo. Un caro saluto