scritto da Eugenio Ciancimino - 20 Maggio 2024 09:51

23 Maggio: Strage di Capaci, sobrietà e rispetto a scanso di blasfeme strumentalizzazioni

I riti delle celebrazioni istituzionali sull’opera del magistrato, che ha firmato, insieme a Paolo  Borsellino, l’istruttoria del primo maxi processo alla mafia, superando tutti e tre i gradi di giudizio, si incrociano con il dibattito in Parlamento sulla proposta della separazione della carriera del PM rispetto a quella  del Giudice

Il 23 Maggio, elevato a giornata della legalità, è una delle date del martirologio dei servitori dello Stato che hanno dato la vita per la difesa e la garanzia della civiltà del diritto nel nostro Paese.

In essa si iscrive il 32° anniversario della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.

I riti delle celebrazioni istituzionali sull’opera del magistrato, che ha firmato, insieme a Paolo  Borsellino, l’istruttoria del primo maxi processo alla mafia, superando tutti e tre i gradi di giudizio, si incrociano con il dibattito in Parlamento sulla proposta della separazione della carriera del PM rispetto a quella  del Giudice.

Uno storico scontro, poco dialettico e molto ideologico o politicante, che si rinnova ogni qualvolta che Palazzo Chigi si colora con tinte e sigle di centrodestra. Ed è di attualità in concomitanza di una campagna elettorale segnata da inchieste giudiziarie, al di là della tempistica, su cui si levano cori contrapposti tra cultori della presunzione di innocenza o di colpevolezza, meglio identificati come garantisti o giustizialisti. Cose già viste e strilli ascoltati, comprensibili nel mercato del voto, ma blasfemi se ripetuti in memoria di Giovanni Falcone attraverso l’uso improprio di sue parole ed espressioni utilizzate a mo’ di slogan.

Sui social scorre la sua frase “quando capiranno di non poterti né eguagliare e né superare, cominceranno a sporcarti” (da lui riferita anche ad ambienti togati, ndr).

Verso chi, abusivamente, l’avesse adottato o ne abbia intenzione, Totò, principe della risata, suggerirebbe di “riderci sopra, perché non è bello rovinare i sogni di un idiota”.

In questo clima politicamente arroventato, in cui anche il sindacato dei magistrati (ANM) ha preso partito contro la riforma proposta dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, altre frasi di Giovanni Falcone tornerebbero utili a chi contesta facili ricorsi all’esercizio dell’azione penale anche quando non c’è una base di carte e materiali sufficienti per reggere i tre gradi del conseguente processo.  Si tratta di una questione di professionalità che Falcone ha rivendicato di fronte allo stesso CSM ed ha ribadito nella sua pubblicazione “cose di cosa nostra” realizzata in collaborazione con la giornalista francese Marcelle Padovani: “perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili  a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio” e “ne uscirebbe compromessa la credibilità del magistrato e quella dello Stato”.

Ammonimento da chi ha esaltato i valori del mondo togato ma ne ha anche sofferte le miserie umane ed ha, sopratutto, scandagliato curvature delle istituzioni ad opera di infedeli servitori o di attori politici compiacenti o neghittosi rispetto al tarlo mafioso che ne condiziona e trafora il funzionamento.

Lui stesso che ne è stato servitore non è stato sufficientemente protetto dallo Stato. Ne sono state parole premonitrici ed amare quelle che chiudono il suo  racconto di “cose di cosa nostra”: “in Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.

Con l’aria che tira nel mondo togato e nell’agone politico elettorale non si sta fuori tema se si paventano strumentalizzazioni giocabili  sulla memoria di un martire. In questi casi di potenziale blasfemia non ci sono parole acconciate e le più appropriate ricorrono in un antico proverbio siciliano, “ ‘a megghnu parola è chidda  ca ‘un si dici”.

 

 

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