Tra tutte le indecisioni iconografiche, fu sicuramente il contrasto tra casualità e causalità a porre una benda sui vispi occhi di Tyche. La ramificazione del fato nelle sue incertezze è sempre stata, in ogni mitologia, una vigorosa depauperizzazione della responsabilità umana sul suo divenire, un tentativo di alienare sotto pretesto divino il completo controllo dell’uomo sulla sua storia. Fu Seneca il primo a porre un differente accento, mutandone così la sonorità, su tale questione. Nel De Providentia egli rincuorava l’amico Lucillo sulla questione della sfortuna, assicurandogli che se le cose peggiori erano solite capitare agli uomini migliori era solo affinché questi potessero dimostrare la loro grandezza. Ma cosa definisce un evento fortunato o sfortunato? È attraverso tale quesito che sarebbe ora mio interesse spostare il senso di questa trattazione verso un contesto decisamente più umano che divino.
Nella psicologia cognitiva la risposta ad un problema di natura decisionale è vista come un celere tentativo di proiettare la attuale immagine di sé nel contesto ove tale scelta è stata presa, un anticipo immaginario della conseguenza del proprio scegliere. Sarebbe ora sciocco, nel reame delle possibilità, non immaginare che una scelta presa non possa andar male in virtù di imprevedibili fattispecie aleatorie, quelle fortune o sfortune sulla quale possiamo contare ma senza assoluta certezza. Ma qual è il nostro rapporto con tali eventualità? Quanto contiamo sul loro realizzarsi, nel bene o nel male, e senso ancor più stretto quali sono le nostre reazioni e le nostre pretese su queste?
La legge di Murphy, resa celebre da Arthur Bloch e deviata dalla sua originale natura caricaturale che ha davvero poco a che fare con una realtà scientifica, afferma che “Se qualcosa può andar storto, allora è certo che lo farà”. Come spesso accade con affermazioni di grande potenza evocativa, lo studio sul senso donatole da chi la scrive viene sostituito con il piacere che questa offre quando utilizzata in un contesto non necessariamente suo, facendo leva sul suono più che sul significato. Ma piuttosto che avviare una sterile esegesi su tale affermazione, la prenderemo invece per buona e daremo addirittura piena fiducia alla sua veridicità, ponendo però una piccola variazione: la capovolgeremo.
“Se qualcosa può andar bene, allora è certo che lo farà.” Volendo ora rendere tale trattazione più fluida affideremo ad un qualcosa di positivo il senso di più, e ad un qualcosa di negativo il senso di meno. Poiché uno studio probabilistico su quelle che sono le possibilità del presentarsi di un avvenimento positivo o di uno negativo è fin troppo soggettivo e legato al cosa è ritenuto bene e cosa male per un individuo, ci limiteremo ad orientare la possibilità sull’aspettativa. Poiché siamo protesi ad esser pretenziosi sul bene e vittimisti sul male, ci ritroviamo ad intendere come normalità tutti quei beni che incontriamo ogni giorno, avendoli ormai interiorizzati come comune essere delle cose, ma farò un esempio più chiaro e sicuramente più popolare. Che durante l’attraversamento di una strada io non venga investito è probabile, ma non sufficiente per essere un evento positivo. Che io invece venga, durante lo stesso attraversamento, investito è probabile, ed in virtù di questo negativo.
Perché un evento positivo probabile è ritenuto fortunato e lo stesso evento in chiave negativa, sempre probabile, è ritenuto sfortunato?
Nella tematica del possibile dovrei ritenermi fortunato ogni qual volta che porto a termine un attraversamento privo di infortuni, e non sfortunato in quella sola occasione dove questo mi ha portato danni, nel caso di un incidente. Questo dipende dal fatto che non ci accontentiamo del positivo “normale”, o positivo “positivo”, ma pretendiamo di più: vogliamo quel bene più improbabile del male che però ci sembra dovuto poiché “normale”.
Prendendo in prestito la benda che anticamente avevamo offerto a Tyche riteniamo di meritare come fortuna ciò che è improbabile e non meritare come sfortuna ciò che è ugualmente improbabile, ingrati e satolli di tutto il bene che ogni giorno riceviamo dal momento stesso in cui ci si pone come possibilità quella di poter aprire gli occhi e osservare, come se il bene stesso fosse ormai normale, senza aver avuto la stessa dignità necessaria a normalizzare il “male”.
Se fortuna e sfortuna sono un serpente con due teste messe a guardia d’un nostro volere, che l’interesse non sia quello di orientare solo una delle due teste a morderci, ma di raggiungere tale volere noncuranti del serpente e non necessitando di porre quest’ultimo sul nostro percorso, né come casualità né come causalità.