scritto da Nino Maiorino - 21 Febbraio 2022 09:34

Edward Lubusch, la storia di pentimento e riscatto di una SS

A chi sa cos’hanno fatto le SS durante il dominio nazista, viene spontaneo chiedersi se esse fossero tutte belve.

Oggi potrebbe essere semplicistico affermare che se non fossero state belve avrebbero potuto cambiare mestiere: per due motivi, il primo è legato alla ideologia razzista che il regime di Adolf Hitler aveva inculcato, il secondo è che sarebbe difficile, all’epoca, dissociarsi dal clima di violenza, basato sulla teoria della supremazia dei tedeschi e ariani su tutte le altre razze.

Quando parliamo delle SS non possiamo non tener presenti anche ai militi fascisti, le camicie nere, gli squadristi che sostenevano il nostro Duce, che pure si sono macchiati di crimini efferati: uno per tutti Sant’Anna di Stazzema, anche se, il confronto con le SS non regge.

Abbiamo cercato sul web qualche caso di SS umana, ma abbiamo trovato solo Edward Lubusch, un polacco il quale all’origine aveva rinnegato la Polonia, per identificarsi nella cultura tedesca.

Era nato nel 1922 a Bielsko, in Polonia, da padre tedesco e madre polacca, e parlava correntemente entrambe le lingue.

La sua famiglia viveva nella comunità polacco-tedesca, quindi nei primi anni della sua infanzia il ragazzo aveva amici di entrambe le cittadinanze.

Ma egli si sentiva tedesco: pensava e voleva vivere come un tedesco, e quella sua determinazione avrebbe avuto un grande impatto sulla sua vita futura.

Secondo Franciszek Karczmarczyk, suo compagno di classe, Edward da ragazzo aveva protestato ad alta voce a scuola contro l’obbligo di parlare la lingua polacca, e per questo fu espulso.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale si arruolò volontariamente nelle SS e si offrì volontario per lavorare ad Auschwitz.

I suoi genitori sostennero la sua decisione, perché la situazione politica tra Germania e Polonia stava diventando difficile, ed essere tedesco era molto più sicuro che essere polacco; lavorare ad Auschwitz era stata un’idea della madre, la quale, avendo perso l’altro figlio sul campo di battaglia, voleva che egli stesse lontano dal fronte.

Nel 1942 Eduard sposò con una ragazza tedesca di origini polacche e l’anno successivo diventò padre: suo figlio nacque a Wadowice, il paese natale di Karol Wojtyła, Papa Giovanni Paolo II, non molto lontano dai campi di concentramento.

Lubusch non era del tutto consapevole di cosa fossero realmente i campi di concentramento e non aveva idea della ferocia dei soldati che vi lavoravano. All’inizio Auschwitz era stato definito un campo per prigionieri politici, pure se in realtà era stato concepito come campo di sterminio, e in realtà funzionò egregiamente, vennero ammazzati circa 1,3 milioni di persone, il 90% ebrei.

Da tutti, compresi i prigionieri, Edward Lubusch era considerato un brav’uomo, l’unica SS umana verso i detenuti.

Nonostante il suo lavoro nella fabbrica della morte, cercò di non assistere a nessuna brutalità, come facevano le SS.

Era molto facile per una SS uccidere un prigioniero senza alcun motivo: anzi molte SS venivano ricompensate con tre giorni di congedo per aver ammazzato un prigioniero che stava per fuggire dal campo, pure se questo non era vero.

Le SS avevano escogitato un espediente: ordinavano a un detenuto di dargli il cappello, lo gettavano oltre la recinzione del campo, e ordinavano al prigioniero di andarlo a riprendere: se lo faceva la SS gli sparava e poi riferiva alla Gestapo di aver ucciso un prigioniero che aveva tentato la fuga dal campo e gli venivano concessi tre giorni di riposo. Se il prigioniero si rifiutava la SS gli sparava per non aver eseguito il suo ordine.

Tutti i prigionieri che hanno parlato della vita ad Auschwitz hanno confermato che Edward Lubusch non partecipò a nessuna crudeltà.

Ma la sua umanità era considerata una debolezza ai comandanti, quindi Lubusch fu punito molte volte per questo e per un certo periodo fu mandato alla scuola di addestramento delle SS dove avrebbe dovuto imparare a trattare i prigionieri con mano pesante.

Il risultato fu totalmente opposto, Lubusch non si abituò agli abusi sui prigionieri, e la sua considerazione per essi aumentò, ed evitò, per quanto poté, di infierire anche indirettamente su di loro.

Da quelle esperienze Lubusch imparò solo che non avrebbe dovuto mostrare apertamente la sua simpatia per evitare nuove punizioni.

Secondo Stanisław Trynka, detenuto ad Auschwitz, Lubusch potrebbe aver salvato molte vite umane.

Nel 1942 diresse la bottega del fabbro ad Auschwitz dove lavoravano diversi prigionieri. Visto che poteva decidere da solo chi reclutare, scelse coloro che non avevano forze per lavorare e avevano bisogno di essere curati.

Naturalmente chiedeva loro di lavorare sodo, ma si è sempre preso cura di loro, assicurandosi che ricevessero i pasti quotidiani e le medicine.

Alcuni dei detenuti divennero suoi amici, e spesso restituirono le attenzioni ricevute: un ex prigioniero, Artur Krzetuski, riferì che venne tenuto nascosto che Lubusch avesse cantato l’inno nazionale polacco “Mazurek Dąbrowskiego” che inizia con le parole “La Polonia non è ancora morta mentre siamo vivi”.

Un altro prigioniero, Kazimierz Smoleń, che in seguito fu il direttore generale del Memorial and Museum Auschwitz-Birkenau, ha ricordato il giorno in cui Lubusch, ubriaco, iniziò a sparare sul ritratto di Hitler; i detenuti riuscirono a bloccarlo e mascherarono i buchi nel ritratto in modo che nessuno potesse rendersi conto di cosa fosse successo e la mattina dopo il ritratto sembrava nuovo di zecca.

Secondo altri testimoni sopravvissuti ad Auschwitz, uno degli atti più rilevanti dell’aiuto di Lubusch ai prigionieri fu il suo coinvolgimento nella fuga di una giovane coppia, il polacco Edek Galiński e la ragazza ebrea Mala Zimetbaum, che si erano incontrati ad Auschwitz negli ultimi mesi del 1943.

Mala era stata mandata ad Auschwitz per essere ammazzata, ma era istruita che conosceva le lingue, quindi e fu mandata a lavorare in un ufficio a tradurre documenti in tedesco, francese, italiano, polacco, olandese e russo.

Era molto benvoluta dalle detenute, che aiutava ogni volta che poteva. I compagni di reclusione l’hanno ricordata anche per averli aiutati a scrivere lettere di addio alle loro, quando avevano capito che non sarebbero sopravvissuti.

Il giovane, Edek era un intellettuale polacco, arrestato dai soldati tedeschi nel 1940 nell’azione denominata “AB”, il cui scopo era di arrestare la maggior parte degli scienziati, medici, professori e altri intellettuali polacchi e mandarli a morte nei campi di concentramento: se i leader fossero morti, il resto della nazione si sarebbe allineata con i tedeschi. Edek lavorava nella bottega di fabbro di Lubusch.

Edek e Mala si innamorarono nel campo, e si godettero ogni momento, anche di intimità, che poterono trascorrere insieme: era come cercare la normalità all’inferno, riuscivano a trovare momenti per se stessi per parlare, camminare, sognare sul loro futuro, tutto questo all’ombra dei forni crematori che funzionavano giorno e notte: tutta quella carneficina e dolore di migliaia di persone sembravano non essere più importanti del loro amore.

La storia di questi due giovani sarebbe stata scritta molti anni dopo da Wiesław Kielar, uno degli amici di Edek, nel libro “Anus Mundi”.

I due giovani, aiutati da Lubusch, riuscirono a scappare dal campo, ma furono trovati, arrestati e torturati per rivelare il nome di chi li aveva aiutati, ma essi riuscirono a non farlo; dopo di che vennero trucidati, il giovane si impiccò, la ragazza venne messa nel forno ancora viva.

Subito dopo la morte dei giovani, Lubusch decise di abbandonare Auschwitz: era consapevole che qualsiasi aiuto verso i prigionieri poteva essere rivelato in qualsiasi momento. E non volle rischiare oltre.

Aveva anche capito cosa fosse diventata la Germania con Hitler, e questo lo fece riavvicinare alla sua patria di origine, la Polonia.

Sembra che sia stato anche coinvolto nella formazione polacca dell’AK, e abbia combattuto contro i tedeschi; era apprezzato perché conosceva bene il tedesco e questo era di aiuto quando veniva catturato un tedesco.

Ma ormai la parabola di Lubusch stava tramontando.

Ormai nel mirino delle SS, venne arrestato alla fine del 1944 a Wadowice dove, in fuga da Auschwitz, aveva deciso di ricongiungersi alla famiglia, una ingenuità che gli costò cara.

Venne trasferito nella prigione delle SS a Berlino, in Germania, dove fu condannato a morte. L’esecuzione della sentenza fu però interrotta da un incendio in città scoppiato a seguito degli ultimi combattimenti della seconda guerra mondiale. Il caos che seguì nella prigione gli diede la possibilità di scappare nel marzo 1945, e durante la fuga trovò il cadaveri di un soldato polacco e prese i vestiti, i documenti e la sua identità.

Ufficialmente Lubusch era scomparso, ricomparve solo molto dopo la fine della guerra, ma non più con la sua identità, che non fu mai più ufficializzata perché l’odio dei polacchi verso le SS ovviamente non cessò, ed egli fu costretto a rimanere defilato, e non ha mai più potuto riacquisire il suo cognome di origine.

Acquisì la nuova identità di Bronisław Żołnierowicz, con la quale, dopo aver lavorato come guida turistica dopo il conflitto, sarebbe deceduto nel 1984; sulla sua tomba questo è il nome che ancora compare.

Sarebbe opportuno che la Polonia facesse uscire dall’oblio questo personaggio che, in definitiva, ha portato lustro al suo paese, dimostrando che il bene ai può fare in tanti modi, e che lo si deve fare anche a rischio della vita.

Classe 1941 – Diploma di Ragioniere e perito commerciale – Dirigente bancario – Appassionato di giornalismo fin dall’adolescenza, ha scritto per diverse testate locali, prima per il “Risorgimento Nocerino” fondato da Giovanni Zoppi, dove scrive ancora oggi, sia pure saltuariamente, e “Il Monitore” di Nocera Inferiore. Trasferitosi a Cava dopo il terremoto del 1980, ha collaborato per anni con “Il Castello” fondato dall’avv. Apicella, con “Confronto” fondato da Pasquale Petrillo e, da anni, con “Ulisse online”.

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