In un precedente articolo, pubblicato il 29 maggio, abbiamo riportato la cronaca del convegno organizzato sabato 27 maggio presso il Comune di Cava de’ Tirreni sull’Autonomia differenziata proposta dal Ministro Calderoli della Lega.
L’iter di revisione era cominciato lo scorso novembre quando una prima bozza era stata presentata alle regioni per raccogliere “consensi” e approvazione; però nulla di fondamentale era stato davvero ritoccato, nonostante i suggerimenti.
Ma andiamo a vedere, sinteticamente, cosa prevede la riforma Calderoli sulla Autonomia differenziata, sulla quale già ci eravamo intrattenuti con diversi articoli pubblicati dal 2019 in avanti.
Senza alcuna modifica alla bozza proposta dal Ministro, secondo numerosi studiosi, membri dell’opposizione e rappresentanti delle regioni del Sud, i modi in cui l’autonomia differenziata potrebbe attuarsi graverebbero sulla già profonda disparità territoriale nazionale.
Cosa significa autonomia differenziata?
Il tema centrale dell’iniziativa del ministro Calderoli è dibattuto da anni ed è caro alla Lega.
Si tratta infatti di una proposta di cui si parla dal 2001, quando entrò in vigore la riforma della Costituzione con la quale si delineava la possibilità per tutte le Regioni a statuto ordinario di chiedere allo Stato competenza “esclusiva” su 23 materie.
Riflettiamo sul termine “esclusiva”, il quale sta ad indica che lo Stato centrale, nelle materie decentrate, non potrà più metterci mano.
Sarebbe invece opportuno avviare una riforma che ricentralizzi alcune competenze, per limitare i danni dell’eccessivo decentramento, danni già riscontrati, nel corso della pandemia, per la sanità: al momento ogni regione ha la “sua” sanità.
Infatti per i partiti dell’opposizione, ma anche di una parte della maggioranza, il nodo della questione, in vista del voto del Parlamento, è proprio questo: delineare con esattezza procedure, vincoli e concreti benefici di questa possibile trasformazione.
Nella versione attuale del testo, sostenuta fortemente dal Governatore del Veneto Luca Zaia, non si specificano le modalità con cui si potrà presentare la richiesta di autonomia differenziata.
Autonomia differenziata: i rischi del DDL
L’aspetto più dibattuto del DDL Calderoli è il fatto che non include nessun requisito tecnico minimo per chiedere l’autonomia.
In altre parole, come ha detto il docente di economia Paolo Balduzzi a “Lavoce.info: «Non si richiede che la regione richiedente abbia i conti in ordine o non sia stata commissariata in precedenza per la gestione delle materie di cui fa richiesta.
«C’è però anche un altro aspetto chiave: il testo non pone limiti alle materie su cui si può richiedere competenza esclusiva. Ciò significa che potrebbero rientrare nel giro anche l’istruzione, la sanità, la produzione di energia e tutela dell’ambiente: temi delicati che rischiano di creare ulteriori spaccature.
«Mancano all’appello, ad esempio, i “livelli essenziali di prestazione che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (Lep)” che, come riportato nella Costituzione, devono tutelare “i diritti civili e sociali” dei cittadini e delle cittadine.
«L’assenza dei Lep, o meglio il ventennale ritardo sulla loro definizione, è in verità un vecchio (e problematico) tormentone italiano e nessuno, ad eccezione di Calderoli, ritiene fattibile la loro definizione in tempi utili per l’entrata in vigore dell’autonomia differenza così come viene proposta oggi.
«In coda ai rischi, come comun denominatore di quelli sopracitati, c’è il riflesso che il debole scheletro di vigilanza avrebbe sullo storico divario di spesa e disponibilità economica tra Sud e Nord.
«Per fare un esempio concreto, lo scorso dicembre il direttore della Svimez, Luca Bianchi, ha preso come riferimento il mondo della scuola dicendo che ci sarebbe il rischio “di un vero processo separatista, con “programmi diversi a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriale e meccanismi di finanziamento differenziati”.
Lo spettro più grave sarebbe poi quello di “nuove gabbie salariali” con Regioni disposte a pagare di più gli insegnanti e a generare un’ondata migratoria disastrosa per gli equilibri nazionali della distribuzione dei docenti.
E rincara la dose il Direttore di Svimez Luca Bianchi il quale, in una simulazione illustrata in Commissione affari ostituzionali del Senato, ha calcolato che “se l’Autonomia differenziata fosse stata realizzata già nel 2017, le tre regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna n.d.r.), nel triennio 2017-2019 avrebbero beneficiato di un surplus tra 6 e 9 miliardi di euro”.
E ancora, Luca Bianchi dice: “Circa il 30% del gettito Irpef nazionale sarebbe bloccato. Sulla base delle previsioni fatte per Lomdardia, Veneto ed Emilia-Romagna, abbiamo provato a quantificare il valore finanziario che passerebbero alle Regioni; le funzioni delegate varrebbero circa il 90% dell’Irpef nel Veneto, il 70% in Lombardia, e il 78% nell’Emilia-Romagna”.
Insomma, tutto a favore del Nord, segnatamente di sole queste tre Regioni.
In risposta alle accuse, ad ogni modo, il Ministro nega e minaccia: “Tra un po’ passo alle denunce”.
Insomma Calderoli impone la “sua riforma” con pugno di ferro e non vuole sentir ragioni.
Dopo i pareri contrari dei presidenti di regione Michele Emiliano e Stefano Bonaccini, infatti, è arrivato lo «strappo di Calderoli» il quale, in una intervista al Corriere della Sera ha detto:
«Nessuno può azzardarsi di accusarmi di tradire la Costituzione sulla quale ho giurato, spaccare il Paese lo sarebbe. E allora o qualcuno mi trova un articolo, un comma, una riga nel mio testo di riforma dove emerge che il Sud viene danneggiato, o deve tacere».
E questa è, allo stato, la situazione.
Per concludere riteniamo utile riportare, dall’Enciclopedia Treccani, la sintesi della riforma, conclusasi all’inizio dell’anno 2002, del Titolo V della Costituzione.
La riforma del titolo V della Costituzione, è stata effettuata nel 2001 dal Governo Amato, con la legge costituzionale n.17 di giugno 2018, dando piena attuazione all’art. 5 della Costituzione, che riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica.
I Comuni, le Città metropolitane, le Province e le Regioni sono enti esponenziali delle popolazioni residenti in un determinato territorio e tenuti a farsi carico dei loro bisogni.
L’azione di governo si svolge a livello inferiore e quanto più vicino ai cittadini, salvo il potere di sostituzione del livello di governo immediatamente superiore in caso di impossibilità o di inadempimento del livello di governo inferiore (principio di sussidiarietà verticale).
La riforma è stata necessaria per dare piena attuazione e copertura costituzionale alla riforma introdotta dalla Legge 59/1997.
Con questa legge si è cercato di riformare l’amministrazione pubblica, attraverso un processo di decentramento, di liberalizzazione, di semplificazione e di responsabilizzazione, al fine di modernizzare il nostro Paese attraverso la costruzione di un’alleanza tra pubblico e privato.
LE REGIONI – Alle Regioni è stata riconosciuta l’autonomia legislativa, ovvero la potestà di dettare norme di rango primario, articolata sui 3 livelli di competenza: esclusiva o piena (le Regioni sono equiparate allo Stato nella facoltà di legiferare); concorrente o ripartita (le Regioni legiferano con leggi vincolate al rispetto dei principi fondamentali, dettati in singole materie, dalle leggi dello Stato); di attuazione delle leggi dello Stato (le Regioni legiferano nel rispetto sia dei principi sia delle disposizioni di dettaglio contenute nelle leggi statali, adattandole alle esigenze locali).
LO STATo – Allo Stato compete solo un potere esclusivo e pieno, circoscritto alle materie di cui all’elenco del 2° co. dell’art. 117 della Costituzione. Il 3° co. dell’art. 117 della Costituzione individua i casi di potestà legislativa concorrente tra lo Stato e le Regioni. Per tutte le altre materie, non indicate e non rientranti in quelle indicate nel 2° e 3° co. dell’art.117 Costituzione, le Regioni hanno potestà legislativa piena.
I COMUNI – Sono enti territoriali di base, con autonomia statutaria, organizzativa, amministrativa, impositiva e finanziaria. Essi rappresentano, curano e promuovono lo sviluppo della comunità locale e sono i principali destinatari delle funzioni amministrative, in quanto più vicini al cittadino e ritenuti più idonei a esercitare i compiti amministrativi (municipalismo d’esecuzione).
LE PROVINCE – Sono enti intermedi tra i Comuni e le Regioni, rappresentativi di proprie comunità, con funzioni di cura degli interessi, ma anche di programmazione delle attività delle comunità locali che rientrano nel proprio territorio.
LE CITTÀ METROPOLITANE – Sono tipi speciali di Province, con poteri notevolmente più ampi e molto vicini a quelli comunali, soprattutto in ambito urbanistico. Sono istituite, su iniziativa dei Comuni interessati, in aree metropolitane individuate nelle zone comprendenti i Comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Reggio Calabria, Cagliari, Catania, Messina, Palermo, Trieste.
LE COMUNITÀ MONTANE – Sono unioni di Comuni montani e parzialmente montani, anche appartenenti a Province diverse, con funzione di valorizzazione delle zone montane, per l’esercizio di funzioni proprie conferite, nonché per l’esercizio associato di funzioni comunali.
L’AUTONOMIA FINANZIARIA – Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa.
La finanza locale (art. 119 Cost.) si fonda su 3 pilastri: autonomia impositiva; compartecipazione al gettito di tributi erariali, riferibili al territorio (territorialità dell’imposta); fondo perequativo per colmare eventuali squilibri tra le Regioni, derivanti dalla diversa capacità fiscale dei territori, e per assicurare gli stessi standard nell’erogazione di alcuni servizi.
A questi si aggiunge la finanza straordinaria, costituita da risorse aggiuntive destinate dallo Stato a zone specifiche per sviluppo, crescita, coesione, solidarietà sociale e rimozione di squilibri economici e sociali.