Se i ricordi non invecchiano, c’è solo un posto dove si conservano intatti.
La casa della nostra infanzia è un’architettura senza tempo.
Dinanzi al disfacimento fisico delle persone, lo spazio dell’avvenuto si mantiene intatto.
Nel film “Le sorelle Macaluso”, tratto da una fortunata piece teatrale, di Emma Dante (6 candidature ai David di Donatello 2021, tra cui “miglior film” e “miglior regia”) una casa all’ultimo piano alla periferia di Palermo diventa custodia per un’ingenua felicità.
Una teca dove la leggerezza si trattiene sottovuoto.
Eletto per nascita, caso o vocazione, al luogo degli affetti si ritorna sempre. Come piccioni al nido.
Anche dopo quel momento esatto in cui i ricordi si tramutano in rimpianti.
D’altronde, stipati nei cassetti, nessun oggetto invecchia veramente. Negli arredi in radica lucida e carta da parati che, solo all’epilogo, struccata dai quadri, rivela l’alone stinto dei decenni.
Tra l’indaco dei cieli che non sbiadisce, allineamenti di cabine su mare turchese, stabilimenti gusto liberty e dinosauri nei prati.
Se la casa di “Parasite” è la proiezione dei nostri desideri più ambiziosi, quella delle sorelle Macaluso è lo spazio assoluto della nostra nostalgia.
Di ciò che non saremo mai più.
Ritornando nelle case dell’infanzia, maneggiamo corpi fragili.
Frugando nell’albergo del passato ne smontiamo le stanze; ci intriga ritoccare i percorsi della memoria. Auspicare resurrezioni, pure negli esami autoptici.
Servirebbe la mano fatata di un restauratore di anime: non esiste ristrutturazione più vana di quella di una vita.
Per questo sono tutte nostre sorelle, le sorelle Macaluso.
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