scritto da Mariano Avagliano - 20 Gennaio 2018 12:02

Napoli rimane Velata

(foto tratta dal profilo Fb Napoli da Vivere)

Quasi sempre l’Opera del Protagonista si presta a un prisma di interpretazioni. A volta contraddittorie. A tratti accade che la stessa opera del Maestro manchi di soggetti e colori e note rispetto alle creazioni che l’hanno preceduta, semplicemente perché il protagonista in quel momento ha deciso di cambiare strumento o spartito o tempo di battuta.

Ho avuto la stessa impressione, qualche giorno fa, quando sono andato a vedere “Napoli Velata”, ultimo lavoro di Ozpetek.

Il film si apre con una scena degna di Hitchcock: un delitto passionale nell’androne di Palazzo Mannajuolo sotto gli occhi, increduli, di una bambina. Wagliu, ci sono rimasto non me lo sarei aspettato che cominciasse così. Poi una soirée della buona società napoletana, la rappresentazione della “figliata del femminiello” nel corso del quale, come distrattaente, Lei e Lui  s’incrociano, si guardano, si osservano e, alla fine, prima poi adda succer, s’arravogliae.

Il giorno dopo si danno appuntamento, ma lui, d’improvviso scompare. Riappare, cadavere, dove lei, medico legale (qui ho iniziato ad avvertire il prurito noto della banalità), lo trova e lo riconosce. Da questo punto, allucinazioni visive, fantasmi immaginari, scene di una Napoli sorprendente con Peppe Barra a fare da Cicerone tra le infinite e più combinazioni del Sacro e del Profano che solo Partenope sa offrire: la Tombola Vajassa, la Farmacia degli Incurabili, e, en apotheose, il Cristo Velato sono un salto in una dimensione onirica, puramente e densamente napoletana. E questa, credo, sia la cosa bella, vera, dell’opera di Ozpetek: fare appunto un ritratto di Napoli, secondo scene, emblemi, che non appartengono semplicemente al folklore ma fanno parte, dell’anima, nera e bianca di un qualcosa che non è solo una città ma un mondo sotterraneo e solare, aperto e meschino, sorridente e brigante, reale e surreale.

Qui sta il Segno del Maestro. Il resto che rimane, è quasi cosa già veduta. La trama fila spedita, sospesa, ma ci si aspetta qualcosa di più elaborato, di meno immaginabile. Quasi come se, a tratti, la Città scomparisse e la storia potesse esser vissuta e girata in altro contesto.

Si esce dal cinema con la sensazione che, come quasi sempre con il regista turco, ci sono pezzi sparsi sul pavimento che poi si ricomporranno d’insieme. Stavolta però, camminando, quello che è rimasto, è un’immagine, in superficie, a tinte fortissime. In profondità, s’afferma invece, il colore di una Città Madre e Assassina, Napoli, che più la ritrai e descrivi e più sfugge, corre, s’invola tra le mani come la Sabbia. Rimanendo, alla fine, sempre uguale a se stessa. Bella e Letale.

Napoli, rimane, velata.

 

 

 

Ha iniziato a scrivere poesie da adolescente, come per gioco con cui leggere, attraverso lenti differenti, il mondo che scorre. Ha studiato Scienze Politiche all’Università LUISS di Roma e dopo diverse esperienze professionali in Italie e all’estero (Stati Uniti, Marocco, Armenia), vive a Roma e lavora per ItaliaCamp, realtà impegnata nella promozione delle migliori esperienze di innovazione esistenti nel Paese, di cui è tra i fondatori. Appassionato di filosofia, autore di articoli e post, ha pubblicato le raccolte di poesie “Brivido Pensoso” (Edizioni Ripostes, 2003), “Esperienze di Vuoto” (AKEA Edizioni, 2017).

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