scritto da Filippo Durante - 29 Dicembre 2020 18:53

L’anno che cesserà… Cara amica, ti scrivo, così mi distraggo un po’

foto Angelo Tortorella

«Che strano, non è cambiato niente!», esclamava una sbigottita Christiane Kerner, ridestatasi dopo lunghi mesi di coma, nel film «Good Bye, Lenin!».

«Perché, doveva cambiare qualcosa?», le ribatteva a bruciapelo, sornione e rassicurante, il figlio Alex.

In realtà, nel breve torno di tempo in cui Christiane era rimasta addormentata, il mondo era stato attraversato da una profonda metamorfosi. Il Muro che divideva Berlino Est da Berlino Ovest era stato disintegrato, la Germania si avviava alla riunificazione, l’Occidente stava fagocitando i regimi comunisti. Sconvolgimenti, questi, che non solo avevano sconquassato lo scacchiere politico internazionale, ma avevano anche inciso sulla carne viva del modus vivendi dei figli della signora Kerner.

Se tutto a Christiane appariva essere rimasto immobile, era solo perché Alex, con la complicità della recalcitrante sorella Ariane, aveva confezionato una sorta di «DDR in miniatura» e a uso e consumo della madre, per scongiurarle uno shock psicologico che avrebbe potuto rivelarsi esiziale. Una sgangherata ma struggente messinscena, una pantomima commovente e nostalgica, per occultare agli occhi della malconcia Christiane la fine di un’epoca.

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A molti, nel riflettere sugli sconvolgimenti che hanno contrassegnato gli ultimi dieci mesi della nostra esistenza, sarà riaffiorata alla mente questa emozionante commedia di Wolfgang Becker.

Di certo, a Capodanno scorso, neanche la più catastrofista Cassandra avrebbe potuto vaticinare un capovolgimento di questa portata del nostro modello di vita. Ricordo che, ancora a gennaio, ci meravigliavamo allibiti del fatto che in Cina, a causa di una malattia, erano giunti a sospendere il campionato di calcio. Ignari, evidentemente, della portata sconvolgente di un virus che si apprestava di lì a poco a spazzar via, dappertutto e anche da noi, delle abitudini di vita consolidate, che si erano sedimentate nei decenni e che, forse ingenuamente, ritenevamo tutti scontate e irrinunciabili.

Decine di migliaia di morti solo in Italia; sfilate di carri con le bare; lockdown; DPCM;  città deserte; barelle nei corridoi;  relazioni scarnificate;  distanziamento sociale; bollettini della Protezione Civile; autodichiarazioni; vita sociale annichilita; istruzione a distanza; teatri, musei, palestre e ristoranti sbarrati; economia allo stremo; cassa integrazione; mascherine obbligatorie; suddivisione del Paese in zone; divieti di circolazione; coprifuoco: un film che tanti abbiamo ripercorso a ritroso in questo Natale, quasi increduli nel raffrontarlo con le nostre fotografie festose degli anni scorsi.

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La Storia entra dentro le stanze e le brucia”, cantava icasticamente De Gregori, e aveva ragione.

Eppure, è un’altra la canzone che mi frulla in testa in questi giorni.  E’ quella che si potrebbe utilizzare per rendere edotta, del ribaltamento che ha contrassegnato le nostre vite, una novella immaginaria Christiane Kerner, appena svegliatasi dopo un forzoso letargo. Sicuramente con minor tatto e con minore inventiva di quelli sprigionati da Alex e Ariane, ma – almeno nelle intenzioni – con la stessa romantica malinconia e con lo stesso fiducioso ottimismo che aleggiano nella pellicola tedesca.

Si tratta de “L’anno che verrà”, in una versione parodiata alla bisogna (rectius storpiata): nella speranza che Lucio Dalla,  istrionico genio della musica e profondo uomo di spirito, non se ne abbia a male.

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“L’anno che verrà”, per una serie di ragioni.

Innanzitutto, perché è una canzone, se non malinconica, quantomeno agrodolce, complice l’utilizzo delle sonorità del fado, un genere folkloristico lusitano. Forse il modo più adatto per accomiatarsi dall’anno che volge al termine e per dare il benvenuto a  quello nuovo imminente. Immagino che molti, a ragione, non abbiano lo stato d’animo adatto per vivere questo passaggio del testimone sulle note del samba scoppiettante di “Meu Amico Charlie Brown”.

Poi, perché il suo testo e il suo stesso incedere sono fortemente dissacranti, senza essere per questo irriverenti. E mai come in questa fase traspare un desiderio collettivo di sdrammatizzazione, pur nel profondo rispetto delle tragedie che ci hanno colpito.

Inoltre, perché, disarcionato dai riferimenti contingenti alla stagione storica in cui è stata concepita, “L’anno che verrà” rappresenta una beffarda canzonatura all’ingenua e tralatizia credenza collettiva secondo cui una mera convenzione – il passaggio da un anno all’altro – possa determinare una palingenesi delle nostre vite. Un monito particolarmente attuale per chi correla con troppa euforia effetti immediatamente taumaturgici all’avvio della campagna vaccinale. La luce in fondo al tunnel si vede, ma dobbiamo tenere i nervi saldi e la barra dritta ancora per qualche mese.

Ancora, Lucio Dalla, da grande giocoliere qual era, aveva concepito delle situazioni parossistiche, dei veri e propri divertissement (tre volte Natale; i muti che potranno parlare; i preti che potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età). A tanti, alcune misure per il contenimento del contagio,così come alcune deroghe a tali misure, sono apparse, a torto o a ragione, altrettanto bizzarre e strambe. E’ il caso ad esempio delle norme che hanno consentito «a singhiozzo», e soltanto sino a determinati orari, l’accesso agli esercizi della ristorazione.

Non solo. “L’anno che verrà”, dimostrando capacità di preveggenza, aveva lambito, sia pur con discrezione, una delle piaghe sociali più acute di questi anni: quella dell’incomunicabilità, di chi sta senza parlare per intere settimane. Un fenomeno, quello della solitudine, paradossalmente acutizzatosi con la diffusione dei social network (che danno solo un’effimera parvenza di socialità) e ulteriormente aggravatosi con le misure di distanziamento fisico, pur necessarie a combattere la pandemia. L’auspicio è che questi mesi così particolari non procurino strascichi indelebili sul nostro carattere e sul modo di relazionarci agli altri.

Infine, l’auspicio, per l’appunto. Il manifesto di Lucio Dalla, pur contrassegnato da venature di disillusione, costituisce anche un formidabile inno alla speranza e alla fiducia nel futuro, contro ogni paura. All’epoca ci si augurava, con cauto ottimismo, che fosse definitivamente archiviata la parentesi degli Anni di Piombo. Oggi l’augurio è che la stagione del Coronavirus volga finalmente al termine.

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Cara amica, ti scrivo, così mi distraggo un po’

E siccome ti sei risvegliata, un poco ti informerò

Da quando ti sei assopita, c’è una grossa novità

L’anno vecchio è finito, ormai

Ma non sai cosa ha lasciato qua

 

Si è usciti poco la sera, in primis quando è festa

E c’è chi si è conosciuto e sposato coi flashmob alla finestra

Si è stati senza incontrarci per intere settimane

Per vedere le persone più care

Videochiamate Interurbane

 

Alla televisione nel corso di tutto l’anno

I dati di una aberrazione

Il bollettino del turpe malanno

 

Dai nonni neanche a Natale si è poi fatto ritorno

Il saluto è distante e veloce

Il caffè al bar solo entro mezzogiorno

Non ci si può rilassare che il virus è tiranno

La mascherina fa anche parlare

Ma alla lunga con grande affanno

Son state chiuse le scuole e le università

Gli studenti han potuto istruirsi

Ma soltanto tramite DAD

 

E quando è scesa la curva, come solo dei clown

S’è provata una mossa furba

E si è tornati subito in lockdown

 

Vedi, cara amica, è stata una fatica

E’ stato un solo lamento

Doglianze e malcontento

Vedi, vedi, vedi, vedi

 

Vedi, cara amica, i camion pieni di bare

L’economia sottosopra

Tutto da dimenticare

 

E se poi pensi che era chiuso il ristorante

Vedi amica mia

E’ stato tutto a sé stante

E’ stata un’anomalia

 

L’anno che sta cessando è pura atrocità

Lo stiamo mettendo al bando, è questa la novità

Cavese, Avvocato Cassazionista. Ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto civile presso l’Università «La Sapienza» di Roma. E’ autore di diverse pubblicazioni scientifiche, tra cui due monografie in materia di diritto civile: settore di cui si occupa, con studio professionale sito nel cuore dell’antico Ghetto ebraico di Roma. E’ giornalista pubblicista.

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