LIBRI & LIBRI “Noi vogliamo tutto”: la rabbia come motore del mondo
La rabbia va rimessa al centro “come miccia e motore di cambiamento”, “non mossa dall’odio ma dalla consapevolezza”.
“Noi vogliamo tutto” è il libro j’accuse di Flavia Carlini, attivista, pubblicato nel mese di gennaio 2024 da Feltrinelli editore e candidato al Premio Com&Te, quest’anno incentrato sul tema, “Amore, fragilità, violenza”.
La finalità del libro è dichiarata sin da quello che – non a caso – si intitola “Inizio”. Contro una informazione ritenuta fallata perché asservita alla politica e, in definitiva, al potere economico, va rimessa al centro la rabbia, “come miccia e motore di cambiamento”, “non mossa dall’odio ma dalla consapevolezza”. Il tema della rabbia diventa così immediatamente leit motiv, ricorrendo come un mantra per 46 volte nelle 150 pagine di cui il libro si compone.
Flavia Carlini parte, con una pratica che è peraltro tipicamente femminista, da esperienze individuali nella convinzione che esse siano “condizioni di vita collettiva”, come lei stessa ha affermato anche durante la presentazione a Cava dello scorso 15 marzo, disponibile al link Facebook . Scrive “per chi non ha più voce, per chi deve ancora scoprire la propria”. In tal senso, il libro è – in senso metaforico – una chiamata alle armi per tutte quelle persone che vivono o hanno vissuto le situazioni di cui parla ma anche una modalità per sensibilizzare l’opinione pubblica, creando empatia e accendendo i riflettori su alcuni temi.
La generalizzazione dell’esperienza è peraltro sempre supportata da dati statistici di spessore, redatti ora dall’Istat, ora dall’Unione Europea, o da organizzazioni come Save the Children, solo per citare alcune fonti.
Il primo tema trattato, a partire dall’esperienza personale di Flavia Carlini, riguarda l’essere donna sul luogo di lavoro, uno dei luoghi per antonomasia dove sesso e potere si mescolano, le donne sono costrette a evitare (situazioni, persone, sguardi, vestiti, …) o assumere atteggiamenti maschili per emergere e , nonostante tutto, si trovano soccombenti, impotenti, e arrabbiate, quando non proprio vittime di molestie e/o violenze. Carlini si interroga su quanto il non essere uomo incida sulla considerazione di una donna in ambiente di lavoro, quanto ci si senta in competizione – anche tra donne – senza motivo.
Il tema non può essere slegato da quello, generale, di cosa significhi essere donna oggi. Qui Carlini accende un faro su tutto il mondo della beauty e della cosmesi, quello che costringe le donne a sentirsi belle per sentirsi all’altezza con il ricatto emotivo che ci si stia “prendendo cura di sé”, mentre invece si spendono fior di quattrini in un sistema che ingabbia. Carlini lo chiama “il prezzo da pagare per potermi sentire, davvero, adatta”. Ma qual è il confine tra “valorizzarsi e adattarsi, valorizzarsi e limitarsi,valorizzarsi e imprigionarsi”?
L’analisi di questi dati di fatto, personali e tratti da fonti autorevoli, induce l’autrice alla consapevolezza: “Ci sono tre cose che una donna non potrà mai avere: uscire senza paura, una libertà autentica, lo stesso trattamento di un uomo”.
Il libro vira poi sul tema medico e della salute, sull’endometriosi e l’adenomiosi, malattie invisibili, diagnosticate all’autrice con undici anni di ritardo, a ventisei anni, praticamente poco meno di metà della sua intera vita, per capire cosa avesse, per dare un nome a quel male che per lei era chiaro sin dall’inizio ma che nessuno prendeva in considerazione. Queste malattie (ma ce ne sono altre come viene mostrato nel prosieguo del libro), viene spiegato, non sono solo invisibili ma anche invisibilizzate perché non se ne parla, non si studiano, non si fa ricerca, ed il prezzo della invisibilizzazione sono decine e decine, centinaia, migliaia di persone, milioni, “rispedite indietro con sprezzo, cinismo, sdegno o, nel migliore dei casi, indifferenza”. Soffrire per una malattia è già di per sé pesante, aggiungervi lo strazio di non essere compresi, addirittura creduti, di essere bollati malati immaginari, è devastante.
Probabilmente, è questo il momento in cui rabbia diventa cura per Flavia Carlini. Il momento in cui, dato un nome alla sua malattia, esce dalla sua solitudine personale e conosce la piazza, il luogo dove finalmente non si sente più sola, dove incontra un “abbraccio caldo di comprensione, di amicizia, di paura, caldo di rabbia e di rancore. Un abbraccio lungo, immenso, completo”.
Da questo momento anche il libro ha una svolta, il racconto personale dell’autrice cede il passo alle storie di sopraffazione, di ingiustizia, di violenza, incontrate negli anni di attivismo: il razzismo nella medicina, dovuto alla mancanza di ricerca e studio su persone di colore, la questione iraniana e le incoerenze occidentali, le morti sul lavoro.
Il libro si chiude quindi con “l’invito a fare della rabbia e della resistenza un progetto democratico”, a smettere di restare in silenzio.
Ciò che mi ha colpito immediatamente di questo libro è stato il titolo. “Noi vogliamo tutto” è un titolo d’impatto, attraente, ed in effetti, nelle prime pagine l’autrice svela che lei stessa ne era rimasta colpita, essendo tratto da uno slogan letto durante una manifestazione.
Devo ammettere che “Noi vogliamo tutto” è uno dei titoli su cui io mi sia fermata a riflettere più a lungo, il suo fascino ha avuto per me qualcosa di non completamente limpido. Noi – vogliamo – tutto. Soggetto – verbo – complemento oggetto. Cos’è che non mi tornava in questa frase semplice, anche secondo l’analisi del periodo? Il dubbio non è riuscita a togliermelo neanche la scrittrice stessa rispondendo alla domanda di Pierpaolo Durante nella video intervista reperibile al link Cava de’ Tirreni, Premio Com&Te: intervista alla scrittrice Flavia Carlini – Ulisse online
Ho apprezzato subito e molto due elementi della frase: il soggetto e il verbo.
In una società che ci vuole sempre più eroi solitari, individui, singoli e anche soli, separati, in tutti i sensi, riappropriarsi del “noi”, della collettività, della condivisione in luogo della competizione, dell’essere tempesta insieme, come profeticamente scriveva Michela Murgia, mi commuove quasi.
Allo stesso modo, in questa stessa società che, sin dall’infanzia, ci insegna che “L’erba voglio non esiste neanche nel giardino del re”, riappropriarsi della volontà, del sogno, dei desiderata, è già un atto in qualche modo rivoluzionario e il verbo volere coniugato in quel “vogliamo” non può che risuonare positivamente alle mie orecchie.
Cosa allora mi mette a disagio in questo titolo? È quel complemento: “tutto”. La mia mente si è chiesta subito: “Se noi (me compresa), vogliamo tutto, a voi , a loro, cosa resta?”. Il dubbio che in questa rivendicazione di parità si perda per strada la pluralità, il diverso punto di vista, l’opinione e la pretesa altrui, mi hanno assalita.
Leggendo il libro, Flavia Carlini precisa però altro. Anzi, la partenza sembra proprio fugare ogni mio dubbio: l’informazione di oggi è – secondo lei – fallata perché unidirezionale, perché non coltiva il dubbio, la sua rabbia è contro una società che ci vuole anestetizzati al pensiero, che ci desidera ignoranti per poterci controllare e che , per questo, non ci racconta l’altra faccia della realtà negandone la complessità.
Partendo dall’assunto – condiviso – della complessità del reale, non riesco fino in fondo a convincermi che sia possibile una società civile che rigetti ogni contrattazione o compromesso – epurando il termine dalla accezione negativa e clientelare ma considerandolo invece trait d’union di opposte esigenze.
Certo però, come dice Carlini, il compromesso non può riguardare i diritti.
E di diritti, lesi o ignorati, già solo nel libro ce ne sono tanti ma, chiaramente, non tutti. A parte allora ogni contenuto, pur valido e condivisibile, di quanto si legge in questo libro, imprescindibile trovo la chiamata al principio democratico da esprimere nella piazza, fisica (o social in alcuni casi) , che dal tempo dell’agorà è stata sempre luogo di scontro e di incontro di culture, opinioni, ragioni, istanze diverse.
A patto però che alla rabbia segua un dialogo costruttivo. La rabbia non incanalata è foriera di degenerazioni esplosive o implosive, magari insospettate, comunque distruttive. Il rispetto del principio pluralista resta centrale per non rischiare di cadere – banalmente – nell’errore di replicare, non volendolo, le tanto vituperate informazione e politica attuali.