LIBRI & LIBRI L’amore inutile: amore, fragilità, violenza in una storia sospesa al filo del telefono
Costretto a un martirio silenzioso e a patire in nome di una passione irrealizzabile. Forse aveva soltanto bisogno di un amore inutile
“L’amore inutile” è un romanzo di Gianfranco Di Fiore, già proposto al Premio Strega 2023 da Valeria Parrella ed ora candidato al Premio Com&Te.
Protagonisti sono lui e lei, due giovani che intessono una relazione, se così la si può chiamare, telefonica. Non sanno nulla o quasi l’uno dell’altro, come non sa nulla il lettore, finanche il loro nome. Per tutto il romanzo, saranno semplicemente lui e lei, o al massimo “amore mio”.
A partire dalle identità di questi due giovani, tutto il romanzo è avvolto in un alone di indefinito e sospensione che provocano claustrofobia al lettore. L’acqua, elemento onnipresente sotto forma ora di pioggia, ora di mare, ora di getto che sgorga dal rubinetto o che riempie una vasca, non riesce mai ad essere elemento purificante, né a lenire il dolore, se non per un attimo. Al contrario, sembra risucchiare le vite di questi due giovani in un vortice ineluttabile che spinge verso il basso. Maligna, pericolosa, diventa l’unico sostentamento nella folle dieta di lei fatta di anguria e limone. Soprattutto, anziché fluire, sembra ristagnare, come la muffa che crea alle pareti delle case.
L’acqua che non scorre genera putrefazione, così sembra accadere a queste due giovani vite: tre anni passati a telefono, senza il coraggio di un incontro, una continua tensione tra detto e non detto, desiderato e non desiderato, tutto pur di restare fermi, fissi, inchiodati nel limbo di una vita che si ha paura di vivere.
Perché? Di Fiore è bravo nel dissimulare, proprio come dissimulano i due protagonisti, nascosti, ognuno dietro il proprio apparecchio telefonico.
Conosciamo entrambi lentamente.
“Lei, che trovava insopportabile parlare con gli uomini, senza volerlo, con lui si scopriva mite e nuda”. Il “vocabolario terapeutico, curativo” di lui “dove tutto sembrava in ordine” era quello di cui aveva bisogno per arginare il suo dolore, quello che l’aveva ridotto al silenzio e all’isolamento. “Dentro di lei si estendevano argini di gelo e apatia, straripavano fiumi di incoerenza e rabbia, e la sua inquinata giovinezza destinata ad un mutamento scientifico e decisivo”.
Figlia viziata di una famiglia ricca e disfunzionale, sappiamo di questa giovane che non ha interesse per nulla che non sia il suo corpo, che vive una vita di plastica, dissoluta, sesso, droga, chirurgia estetica. Si ritiene frivola e stupida. Tra e righe leggiamo un profondo odio per se stessa, l’incapacità di volersi bene, il desiderio di punirsi ma anche di farsi notare. Il racconto narra delle sue ossessioni, quella di lavare, pulire, disinfettare, vaporizzare, igienizzare, quella di camminare nuda, di stare sola e di farla finita. A tratti sembra una personalità borderline, in bilico tra tristezza assoluta ed entusiasmo fanciullesco, ingiustificati entrambi. Solo proseguendo nella storia, il lettore scopre il suo drammatico passato, acquistando gli strumenti per riavvolgere il nastro e dare un perché alle tante domande senza risposta della narrazione.
Di lui il lettore sa che ha iniziato a chiamarla perché, incrociando lo sguardo di lei, l’unica volta che l’ha vista, ha sentito qualcosa che l’ha condotto a cercarla. Fotografo con una proposta di partire per un reportage di guerra, si aggrappa paradossalmente ad una donna che non può vedere. Nel grigio delle sue giornate in una città inospitale, la spinge ad aprirsi, a parlare, malgrado le parole di lei a volte dure o distratte, si rende conto di essere triste senza sentirne i tormenti, come “costretto a un martirio silenzioso e a patire in nome di una passione irrealizzabile. Forse aveva soltanto bisogno di un amore inutile”.
Ma inutile perché? Se è vero che l’amore salva, c’è salvezza per questi due giovani in questa storia? Nella seconda parte del romanzo, la svolta, inattesa, sorprendente. Le strade dei due giovani si incontreranno? Forse non è questo il lieto fine che il lettore può aspettarsi. Come ne “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano, i protagonisti non possono incontrarsi perché ciascuno è chiuso in un bozzolo di dolore e di incomunicabilità, la salvezza per ciascuno sta nella ricerca di un equilibrio personale e di un senso delle proprie vite.
Fa da cornice a questa storia asfittica, la descrizione nitida e vivida dei luoghi, quelli di lui e quelli di lei. Non sappiamo mai bene dove ci troviamo ma conosciamo i dettagli delle rispettive case e dei luoghi nei quali si muovono. Intorno a loro, le famiglie. Quella di lei, più grande, comprende i nonni, il fratello, i cugini ma il rapporto con loro è spezzato, sono insieme eppure soli. Quella di lui, piccola, padre, madre e figlio, appare più unita, anche se rari, ci sono frammenti di dialogo.
Aleggia, in tutto il romanzo, anche il tema del ricordo. Quelli che vuole cancellare lei, quelli che sembra voler costruire lui.
Ed infine resta il dubbio: “Ci si può innamorare di una voce?”
Forse l’unica verità è che “entrambe le loro solitudini erano finite in una botola senza aria”.