L’apologia di Platone: quando Popper confuse l’illuminismo con il totalitarismo
La Repubblica si presenta come un’opera organica, enciclopedica e circolare, concernente, più in generale, il rapporto tra universale e particolare
Analisi critica sulla fondazione dello stato ideale di Platone, e tentativo di confutare le accuse di totalitarismo mossegli da Karl Popper, attraverso il secondo ed il terzo libro de “La Repubblica”, decontestualizzando e superando “L’Apologia di Socrate”, per mettere in corso una vera e propria “Apologia di Platone”
La Repubblica si presenta come un’opera organica, enciclopedica e circolare, concernente, più in generale, il rapporto tra universale e particolare. L’opera è strutturata in dieci libri e ha per protagonista Socrate decisamente diverso da quello degli altri dialoghi, e che in più punti va modificandosi, a poco a poco, in un processo di katábasis, ed è tramite quest’ultima che è mio interesse smuovere, o quantomeno tentare di smuovere, le critiche Popperiane che tendono a dipingere Platone come un “totalitarista”.
“La Repubblica” libri II e III
In medio stat virtus, e il cuore del dialogo Platonico è rappresentato senza dubbio dal secondo e dal terzo libro della “Repubblica”. Successivamente ad una classificazione, molto vicina ad una tripartizione, del bene, il filosofo affronta il tema della giustizia, la quale controparte è rappresentata da Trasimaco, portavoce della controversa ideologia sofista. Socrate tenta di cercare la definizione giustizia in sé, cioè l’idea di giustizia, evitando i soliti argomenti di elogio e cercando inoltre di dimostrare che essa è sempre più vantaggiosa dell’ingiustizia, fugando quindi le tesi sostenute da Trasimaco, il quale riteneva la giustizia come “utile del più forte “. Tuttavia, Socrate si trova in difficoltà, perché non riesce a circoscrivere la giustizia nell’individuo: si appresta allora a ricercarla all’interno dello Stato, ritenendo di poter assistere, parallelamente alla nascita di uno Stato, anche alla nascita della giustizia, in una versione “ingrandita”, stante l’analogia tra giustizia nello Stato e giustizia nell’individuo, che permetterà di giungere più facilmente alla risposta.
Nello Stato ideale proposto da Socrate si impone al cittadino di fare il solo mestiere che gli è stato attribuito direttamente dallo Stato, per questo motivo, ognuno dovrà specializzarsi in una techne ed eseguire solo quella. Egli divide quindi i cittadini in tre classi-funzione: gli artigiani, classe più bassa con l’obiettivo di lavorare e procurare i beni materiali, i guardiani, phýlakes, che invece dovranno proteggere lo Stato, ed infine i governanti o filosofi, árchontes, gli unici in grado di poter governare lo Stato con morigerata saggezza. Queste classi-funzione sono dinamiche, e non attribuite alla nascita: durante l’educazione selettiva viene determinato che cosa l’individuo sia più adatto a fare poiché, come Socrate spiega nel mito delle stirpi, ognuno possiede un’indole che indirizza l’individuo ad uno solo dei tre percorsi.
La classe dei governanti-filosofi deve stare al potere, in quanto classe di innata sensibilità, di inesauribile curiosità intellettuale; i filosofi vogliono capire e non solo constatare, ma anche far funzionare la convivenza. Essi sono pertanto gli unici che dispongono dei mezzi intellettuali appropriati per non far sprofondare la città nel caos e nel conflitto interno ed estero. Il filosofo siciliano Francesco Adorno dirà a riguardo: “Per Platone non si tratta di porre al potere un gruppo, un partito, un singolo, ma “i filosofi”, che rappresentano la “razionalità”, cioè nessuno in modo particolare o privato, ma tutti, in quanto capacità di essere ciascuno sé in rapporto all’altro.” Ed è proprio attorno questa frase che lo spirito assolutamente “dittatoriale” della pòlis assume un nuovo spirito, che andremo presto a dibattere.
Il “Platonicidio” di Popper
” La lezione che noi dovremmo apprendere da Platone è esattamente l’opposto di quello che egli vorrebbe insegnarci…lo sviluppo stesso di Platone dimostra che la terapia che raccomandava è peggiore del male che tentava di combattere. Arrestare il cambiamento politico non costituisce un rimedio e non può portare la felicità. Noi non possiamo mai più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa. Il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra… “
(Karl Raimund Popper, La società aperta e i suoi nemici)
Con questa conclusione il filosofo Viennese critica Platone d’aver creato uno stato totalitario, che vuole organizzare totalmente la vita dei singoli, la cui vita non conta nulla di per sè, se non in funzione dello stato, e muovendo un’accusa di eugenetica sociale, contrapponendo alla perfezione della pòlis l’imperfezione dell’essere uomo, rendendo inutile qualsiasi tentativo di mettere in pratica quanto ideato. La società aperta è inferiore a quella totalitaria platonica, ma ha conoscenza della propria inferiorità e sa correggersi cambiando in continuazione. Una società perfetta non ha motivo di fare questo. A Platone contrappone la sua prospettiva, che definisce “umanitaria”. I presupposti epistemologici del suo “umanitarismo” sono l’individualismo e il nominalismo metodologico. Contro l’essenzialismo, il nominalismo sostiene che compito della scienza non è catturare l’essenza delle cose, ma cercare dei nessi esplicativi fra le cose stesse, cui diamo dei nomi solo per comodità funzionale. Contro il collettivismo, l’individualismo tratta la singola persona come elemento fondamentale: per questo, esso non si interroga collettivisticamente sull’essenza dello stato e su ciò che è bene per lo stato come intero, ma chiede: che cosa pretendiamo da uno stato? Perché preferiamo vivere in uno stato ben ordinato piuttosto che nell’anarchia? Che cosa ci proponiamo di considerare come legittimo nell’attività dello stato? Non si tratta di perseguire tecnocraticamente la perfezione dello stato, ma di valutarlo come strumento per la protezione della libertà individuale – anche contro gli stessi governanti. Per questo, il problema strutturale di organizzare lo stato in modo da rendere il suo potere controllabile e da rendere possibili avvicendamenti al governo senza spargimenti di sangue diventa una questione fondamentale.
La ratio “mascherata” da pòlis
Le critiche mosse da Popper sono difficilmente confutabili, ma solo se interpreti di una lettura àcritica della Repubblica. Quanto mosso da Platone, nell’idealizzazione di una pòlis da egli stesso definita utopistica, altro non è che la presa in esame di un difficilissimo sistema politico che prevede la perfezione, in primis della sua stessa composizione, ed in secundis dell’attuazione della stessa. Il velo della Kallipòlis altro non ha che lo Schopenhaueriano compito di svelare, o nascondere, una realtà umana sicuramente lontana da tale formazione etica, che prevede per non cadere nell’idea di totalitarismo la perfezione di ogni sua parte, la perfetta coesione di ogni ingranaggio.
E così come ogni estremismo è vittima della sua irrealizzabilità, causata da limiti dell’uomo, così la Kallipòlis altro non è che una dimostrazione di come anche il più perfetto sistema di governo andrebbe poi in contro ad un termine degenerativo. Se il principe Machiavellico fosse reale e manifestasse la perfezione in ogni campo, chi sarebbe contrario ad una forma di governo che lo anteporrebbe ad ogni altro individuo? Ma tale perfezione non appartiene all’essere uomo, e tale anteposizione sarebbe possibile soltanto in una sfera religiosa, ed è proprio nella definizione di “paradigma in cielo” che Platone avrebbe risposto a Popper, la perfezione non appartiene al sensibile, e la politica è di quanto più lontano possibile dal concetto di religione, unico contesto dove è possibile immaginare la perfezione di un “essere”, e di questi termini la religione altro non è che un estremismo, forse l’unico accettabile. L’Ateniese stesso suggerirà una forma di pòlis meno utopistica della Kallipòlis, all’interno del dialogo, tentando d’unire le migliori forme di governo dell’epoca in una realtà assolutamente più umana ed attuabile, rispondendo ad una critica che ancora doveva essergli mossa.
La “città perfetta” altro non è che l’ennesimo scontro tra l’illimitatezza del pensiero, capace di cogliere la perfezione, e la finitezza del corpo, dei suoi limiti, che anche potendo arrivare con il pensiero ad un suo fine, in nessun modo ha i mezzi per poterlo raggiungere, vivendo nella speranza di poter emulare tale scopo, o quantomeno di plagiarlo, coraggiosamente, plasmando l’infinito in una forma di finito, più possibile, più vera.