L’età che viviamo, come le altre, è frutto delle altre che ci hanno preceduto. Ciascuna caratterizzata da una scintilla: un insieme dirompente o meglio “disruptive” di cose nuove, invenzioni o tu chiamale se vuoi pure innovazioni, che in un soffio, uno solo, rendono quello che ci stava prima antiquato e, soprattutto, non più adatto.
Influenzando, poi, tutto il resto: la vita, il tempo e lo spazio.
Una simpatica triade che, alla fine, può misurare l’impatto di un’innovazione di un’epoca su di un’altra. Parliamo di qualcosa che rivoluziona la vita e di conseguenza la percezione del tempo e dello spazio che abbiamo.
Quando un passaggio di questo tipo accade si esce da una porta e si entra in un’altra stanza: una nuova epoca. Un vero e proprio cambiamento di prospettiva: cambia la percezione del mondo e del modo in cui risolviamo i problemi.
Cambia, insomma, l’insieme degli strumenti, la cassetta degli attrezzi che, in breve tempo, diventa inadatta perché nel frattempo è cambiato l’oggetto su cui intervenire: come voler riparare uno smartphone usando la chiave inglese, retrò e quindi sempre radical al punto giusto si sa, tipica della Fabbrica dei primi del Novecento. Non ci sta.
Di momenti così ne abbiamo vissuti: la ruota ad esempio ha permesso al caro Neanderthal di andare a zonzo per il mondo, conoscerlo meglio, con maggiore rapidità ed efficacia e quindi avere maggiori possibilità di sopravvivenza. Il bronzo e il ferro hanno permesso di costruire oggetti più resistenti e, anche purtroppo, di fraccarsi per bene di mazzate tra popoli vicini.
Si parla, proprio per l’impatto, grosso e grasso sull’uomo, di “rivoluzioni industriali”: cambiamenti di paradigma, così piaceva chiamarle al caro vecchio Kuhn, “industriali” ovvero cambiamenti, dalle radici, del modo di concepire le imprese produttive di oggetti e beni (e servizi) e le loro relazioni con tutto quello che ci sta attorno.
La prima: quella del vapore ha dato il primo grosso impulso allo sviluppo del sistema industriale e ha consentito, tra le altre cose, al pensiero di Karl Marx di iniziare a fermentare.
La seconda: quella del petrolio e della scoperta, a seguire, del motore a scoppio che, ha modificato radicalmente la percezione del tempo e dello spazio.
La terza: quella vissuta con l’elettronica, da “Tribuna Politica” agli, a volte radicalmente non chic ma pestiferi, smartphone.
Qualcuno più sveglio se n’è accorto. Forse noi, nel nostro Bel Paese, tra i primi. Ma come spesso succede, primi a vedere gli UFO ma gli ultimi a capire, o meglio, a voler faticare per farci qualcosa di buono e utile per tutti.
Ad ogni modo, volenti o no, ci siamo entrati in quella che, indipendentemente da turboottimisti e pessimistinostalgici, è stata definita qualche anno fa come Quarta Rivoluzione Industriale.
Fatta soprattutto del “non fatto”, dell’immateriale puro o come piace chiamarlo agli esperti, di digitale. Qualsiasi cosa, oggi, noi facciamo – dalla macchina, alla palestra, alla ricerca del pretesto per attaccare briga – si svolge in un ambiente digitale. Intendendo con la parola “digitale” non silicio e circuiti ma anzitutto l’essenza della parola: rappresentare il mondo, e tutte le sue “cose”, come sintesi di digitus ovvero di elementi numerici misurabili a partire dalla punta del dito, appunto “digitus”. Numeri insomma, codici.
Addicted o no comunque ci sta poco da fare: il mondo prima degli smartphone, di internet, del digitale, era tutt’altra cosa.
Senza appesantire, non interessa, ad ora, giudicare se sia bene o male. Semplicemente tutto questo è accaduto in meno di trent’anni. Più rapidamente, forse, rispetto a qualsiasi altra rivoluzione del passato.
E il bello è che stavolta la portata del cambiamento riguarda tutti quanti, è del tutto democratica non ci sono esclusi: Il digitale ha cambiato la vita di tutti, dal panettiere al manager d’azienda, quasi con la stessa velocità.
Stavolta tutti sur place siamo rimasti, senza capire bene di sto digitale che ne dobbiamo fare.
Un paradigma che dobbiamo ancora spremerci per bene per afferrare.
Le istituzioni nazionali qualche tempo fa avevano lanciato uno specifico programma, comunque lungimirante: Industria 4.0, un insieme di incentivi alle imprese per gli investimenti in innovazione. Polemiche a parte si tratta comunque di uno strumento che ha consentito di accendere na luce e lanciare il dibattito.
Ma non basta. Potremmo iniziare anzitutto dall’educazione: non solo quella tradizionale e formale che si svolge a scuola (il sistema italiano si sta attrezzando) ma rilanciare, a livello paese, un’attività costante e diffusa capace di sensibilizzare tutti quanti sulla Quarta Rivoluzione Industriale: significati e opportunità per tutti, cittadini, imprese, istituzioni e ricercatori.
Capire insomma che è roba di tutti quanti cogliere le opportunità che arrivano senza aspettare perché senno la fiera passa e le nocelle finiscono.
Far vedere a un bambino di 12 anni che magari un telefono non serve solo per sentire musica o scattarsi foto e postarle ma che invece è uno strumento con cui conoscere meglio il mondo, e come strumenti, e non come fine, va usato, ecco sarebbe una bella meta verso cui trotterellare.
Basta capire che la realtà che viviamo ogni giorno è diversa, dalle radici, da quella vissuta da chi ci stava prima.
Non possiamo, trincerarci dietro “l’uso responsabile” della tecnologia: come se tutto il resto di strumenti e cose che facciamo non siano responsabili. Occorre informare, educare, prima ancora che proporre comportamenti.
Nulla di aulico, anzi, è la realtà che viviamo tutti i giorni. É, semplice semplice, la Quarta Rivoluzione Industriale che è entrata.