Da almeno vent’anni non seguivo più il Festival di Sanremo, dall’inizio di questo secolo non era più uno spettacolo di mio gradimento, probabilmente anche per una diversa maturità.
Ma quest’anno, complice un problema di salute, che ha comportato un piccolo intervento agli occhi, sono stato costretto, per evitare altre noie, a seguire la 71^ edizione, ovviamente solo ascoltando l’audio della tv.
E meno male, perché a parte qualche brano e qualche cantante accettabili, che potevano contarsi sulla dita di una sola mano, non sono stato costretto a vedere gli “Artisti” che si sono esibiti, e dei quali anche il solo linguaggio mi dava una sensazione di sgradevolezza e di fastidio: probabilmente se avessi visto anche i loro volti e abbigliamenti avrei evitato di disgustarmi ancora di più.
Superato l’impedimento visivo, sono rimasto ulteriormente disgustato anche delle loro figure.
In questa edizione, peraltro realizzata in assenza di pubblico nello ormai storico Teatro Ariston, si è distinto tra i conduttori un personaggio di eccellenza, Rosario Fiorello che si è arrampicato sugli specchi per cercare di vitalizzare la serata, portando allo spettacolo un tantino di calore che nelle precedenti edizioni era rappresentato dal pubblico; la sua “spalla”, Amadeus, ha fatto quello che ha potuto, non molto in verità, ma giacché per tantissimi innamorati del festival “Sanremo è sempre Sanremo”, pure le mezze calzette sono considerate eccellenze.
E meno male che Amadeus non sia riuscito a fare dei peggio; ha tentato in tutti i modi di evitare un festival senza pubblico, suggerendo varie soluzioni, addirittura quella di ospitare gli spettatori su una nave ancorata nel porto della città, una soluzione rischiosissima perché un eventuale contagio sulla stessa avrebbe potuto comportare una fonte epidemica incontrollabile; per fortuna non è stato ascoltato.
Francamente cinque giorni di spettacolo sono sembrati eccessivi, il Festival si poteva concludere in tre giorni, evitando di annoiare i teledipendenti, già ampiamente bombardati nelle giornate precedenti da varie anteprime, anticipazioni, pubblicità, ripetute a tutte le ore nelle varie trasmissioni e chiacchiericci dei talk della Rai.
Indipendentemente dall’ultimo, mi sono chiesto negli anni precedenti se questo festival sia quello che gli originari ideatori e realizzatori avevano voluto, vale a dire un concorso tra varie canzoni per scegliere quella più gradita al pubblico, inizialmente solo quello presente in sala, successivamente anche quello che lo seguiva per radio nei primi anni, e successivamente in Tv.
In verità ho pensato che quest’anno sarebbe stato meglio sospendere, ricordando che anche i giochi olimpici in caso di guerra sono stati sospesi, come nel 1914, 1940 e 1944 dello scorso secolo; e chi pensa che oggi non siamo in guerra sbaglia di grosso, perché, pure se è vero che non ci piovono bombe sulla testa, la pandemia è ben peggiore della guerra tradizionale, perché almeno da quest’ultima c’è qualche possibilità di salvarsi, ma dal Covid.19 non c’è scampo.
D’altra parte c’è anche da considerare che, proprio perché siamo in piena pandemia, e le persone responsabili, e sono la maggioranza, seguono alla lettera le disposizioni cautelative emanate, tra le quali quella di non uscire di casa, è stato opportuno che il Festival non sia stato soppresso perché almeno per 6 giorni i telespettatori hanno un avuto un incentivo in più a stare in casa e un diversivo alla noia di tanti programmi televisivi.
Detto questo, andiamo ad analizzare come si è evoluto questo festival dalla prima edizione del 1951, trasmessa solo per radio e presentato da Nunzio Filogamo, vincitrice Nilla Pizzi con “Grazie dei fior”, una canzone che ha distinto l’intero dopoguerra e che ancora oggi viene ricordata e canticchiata con piacere anche da chi il festival non lo seguiva con grande interesse: le canzoni vincitrici dei primi cinquant’anni ancora oggi ancora vengono ricordate con nostalgia, molte di quelle degli anni successivi sfuggono alle masse.
Personalmente, come spettatore alquanto distaccato e spesso critico di Sanremo, ma attento ascoltatore di musica anche leggera, penso che l’ultima edizione degna di essere ricordata sia quella dell’anno 2000, che fece conoscere al grande pubblico un fuoriclasse come Peppe Servillo che, col gruppo degli “Avion Travel presentò una canzone inconsueta, “Sentimento”, un inno alla innovazione della canzone italiana.
Ma non sono stati da meno tanti altri artisti, compositori e cantanti del calibro di Domenico Modugno, Sergio Endrigo, Lucio Dalla, Lucio Battisti, Loredana Bertè, Renato Zero, per citare solo un esiguo campione: a proposito di Domenico Modugno, in una delle serate del recente festival, è stata presentato un pezzo della sua notissima “Dio, come ti amo” subito dopo i grugniti di un nuovo compositore-cantante: che abissale differenza, i fuoriclasse non scompaiono dalla memoria dei veri intenditori, anzi, più invecchiano, più migliorano e più è un piacere ascoltarli.
Tutti gli altri sono meteore, compaiono quell’anno, hanno il primo successo, poi scompaio e vengono dimenticati.
Per tornare al recente Festival, ripeto che a parte qualche cantante e canzone, nella maggioranza dei casi si sono sentiti grugniti, frasi e linguaggi incomprensibili, spesso sembravano lingue di altri paesi, e si sono visti personaggi al limite della immaginazione, mostri prevenienti da altri pianeti, esibizioni da cliniche psichiatriche.
E, se tanto mi dà tanto, non dovrebbe meravigliare la scena finale del gruppo dei “Maneskin”, vincitore dell’ultima edizione, formato da una ragazza e da tre giovanotti (Victoria De Angelis, Ethan Torchio, Damiano David e Thomas Raggi) quasi seminudi; uno di essi, Damiano, per non alimentare dubbi sulla mascolinità dei tre, non ha trovato di meglio che toccarsi l’attributo in maniera plateale, come si evidenzia nella foto pubblicata su tutti i social, scattata appena dopo l’ultima esibizione: una cosa che definire vergognosa è poco, censurata persino dai social.
Ma c’è chi di queste brutture ancora si meraviglia, io uno dei tanti, e non si adombrino i fanatici di Sanremo; questo non è più il festival della generazione del dopoguerra, quella che ha tirato la carretta per ricostruire il paese, e che l’ha fatto con lacrime e sangue, ricostruendo un paese che, nonostante tutto, è ancora ammirato e invidiato dal mondo intero.
E’ probabilmente il Festival dei giovani, i quali, però, spesso sono fuochi di paglia, i loro innamoramenti durano il tempo di una stagione e probabilmente già l’anno successivo se li sono scordati.
Certamente non è più il mio Festival: e mi conforta sapere che sono in buona compagnia.