La coesistenza degli enti: Into the Wild in Spinoza
Dovendo definire il rapporto uomo-natura, probabile fondamento di tutto ciò che è “pragmatico”, l’ago della bilancia tende sempre più ad inclinarsi verso una vera e propria conflittualità tra le due parti, che non vive d’una annessione da parte nè dell’uno nè dell’altra, che sia essa spirituale o meramente pratica.

Dovendo definire il rapporto uomo-natura, probabile fondamento di tutto ciò che è “pragmatico”, l’ago della bilancia tende sempre più ad inclinarsi verso una vera e propria conflittualità tra le due parti, che non vive d’una annessione da parte nè dell’uno nè dell’altra, che sia essa spirituale o meramente pratica. Quella che l’uomo vive con la natura, unica certezza reale, che nella sua esistenza vive al di là d’ogni necessità di spiegazione di stampo ideologico, è una costante sensazione d’inferiorità che vuole manifestarsi come pieno controllo sulla stessa, a discapito d’una realtà molto differente da tale atteggiamento.
Into the Wild
Sull’impronta di London e Thoreau, nel 1996 viene pubblicato da Jon Krakauer “Into the Wild”, racconto che narra gli ultimi momenti della vita di Christopher McCandless, e della sua morte a seguito d’una conciliazione con la natura, divenendo poi vittima della stessa. Christopher è un ragazzo di buona famiglia, che laureatosi in scienze sociali decide di abbandonare, successivamente all’aver donato ogni avere da egli posseduto, una vita, o meglio un mondo, di cui non si sente parte, condannandone la matrice capitalista e decisamente troppo consumista. Tale abbandono consiste in un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti ed il Messico, giungendo in fine in Alaska. La figura del ragazzo è quasi ascetica, profetica volendo, e incarna molto quello che è lo spirito, ripreso in forma assolutamente naturalista, del viandante, in una forma però, volendo, che non incarna la precedente distruzione d’ogni errata forma del pensare, bensì che trova nella fuga, quasi conscio di non poter in nessun modo modificare quanto v’è di sbagliato. La “fuga”, che man mano diventa una piena coesione ed una forte appartenenza con la natura che lo circonda, termina con la sua morte, a causa dell’ingerimento di alcune bacche velenose. Da questo breve riassunto sono probabilmente parsi già molteplici spunti di riferimento a quello che è il rapporto che intendiamo adesso studiare, ed è mio intento affrontare questa analisi attraverso Baruch Spinoza, nel passaggio specifico dove arriva ad intendere Dio come la natura stessa.
Deus sive Natura
Il punto cardine della filosofia spinoziana, la quale si presenta come una sintesi tra quella che è la metafisica tradizionale e la nuova apertura di pensiero offerta della Rivoluzione scientifica, è l’identificazione di carattere panteistico di Dio e natura, nella concezione di Dio come ordine geometrico del mondo, e nella sua identificazione, assolutamente immanente, con la razionalità dell’universo, nella sua rigida determinazione. Il filosofo olandese abbandona il concetto di antropomorfizzazione del divino, e colloca definitivamente la presenza d’un ente superiore nella natura che ci circonda, nella sua accezione di sostanza, concepita come ciò che è in sè e che è concepito per sè, attraverso i suoi attributi che la rendono conoscibile all’intelletto. Quanto appena letto poco differisce dalla concezione di realtà fenomenica e noumenica già ampiamente trattate, ma pone poco dopo un punto molto particolare, che rende il panteismo ormai abbandonato da ogni corrente religiosa e filosofica, una realtà ancora da interpretare: la sostanza, causa di se stessa in virtù della sua totale autosufficienza, è unica e infinita e coincide con Dio, a sua volta definito come la sostanza assolutamente infinita che è espressa da infiniti attributi. La chiara conclusione di tale pensiero può essere solamente che tutto cioè che è, è in Dio, ovvero la natura. Quello che Spinoza raggiunge, opinione che mi sento di dare con molta attenzione e nessuna pretesa che possa essere vicino al vero della sua filosofia, è un vero e proprio ateismo religioso, servendosi dei mezzi della religione per arrivare a “demolirla”, facendo coincidere tutto ciò che per noi è sovrasensibile a quello che è invece presente nel momento d’ognuno, la natura. Ed è proprio da questo nuovo punto appena posto, che possiamo trovare quelle che potremmo definire linee guida d’atteggiamento verso questo nuovo Dio, la natura.
I due soli
Nella chiara interpretazione del pensiero Spinoziano appena posta, la natura altro non è che presenza immanente e divina alla quale costantemente siamo accostati, partecipando di essa e prendendo da essa, considerabile vero e proprio ente sovrasensibile in terra. Quello che però è mio intento offrire, non è un suggerimento che trova sfogo in una venerazione della natura, anzi è molto lontano da tale idea così estrema nel suo rapporto, bensì una forma di ritrovata appartenenza alla stessa, con la consequenziale presa di coscienza di come noi siamo parte di quella ma al contempo esterni alla sua immanenza. Per essere più chiaro mi servirò d’una teoria ben lontana da qualunque pensiero di tipo naturalistico, che trovo però, se completamente decontestualizzata, perfetta per questo ragionamento, ed è la teoria dei due Soli di Dante Alighieri, presente nel De Monarchia. La teoria dei due Soli era una concezione politica medievale e scolastica, che vedeva l’autorità papale e quella imperiale di pari dignità, ma riferite ad ambiti diversi. Sosteneva che l’autorità del papa e quella dell’Imperatore si dovessero occupare in maniera indipendente di due ambiti diversi, la prima di quello spirituale, mentre la seconda di quello politico. Essa fu una risposta alle pretese teocratiche papali e costituì la base ideologica imperiale nella lotta tra i poteri universali nel Medioevo. Secondo questa concezione, la pretesa papale di essere l’unico tramite per mezzo del quale Dio potesse concedere ad un sovrano il potere su uno Stato sarebbe stata errata, in quanto l’autorità dei sovrani sarebbe già stata legittima per se stessa. Di questa base ideologica, che pone due altissimi esponenti in una condizione dove essi hanno pari dignità, pari importanza, e coesistono in una stessa realtà senza che l’uno tanga l’altro, è a quanto l’uomo dovrebbe ispirarsi nel suo rapporto con la natura. La natura è una presenza costante, generatrice, immanente e possente, badiale e maestra, di quanto più è vicino ad un possibile Dio in terra, e l’uomo ne condivide di fatti le stesse caratteristiche, sminuito solo da una presenza molto più recente nell’esistenza. Una vita etica con la natura non vuole che nessuna delle due parti prevalga, per chissà quale giustizia, sull’altra, e che, anzi, non sia l’uomo la natura, che non sia la natura ad essere uomo, ma che l’uno si faccia l’altra e viceversa.