Prima o poi, saremo invasi dalla “palta”, ammasso indistinto delle cose, spezzate, rotte, inutili che – da un preciso momento – abbiamo cominciato a non usare più. La palta sommergerà case abbandonate, luoghi, piazze di tutti i giorni. Senza manco rendercene conto.
Con questa immagine, Philip K. Dick, tra i Grandi della letteratura di fantascienza, mette in scena “Ma gli androidi sognano pecore elettriche” (Do Anroid Dream of Electric Sheep – DADES), romanzo dei ’60 che ancora oggi è un pezzo bello forte, perché, come un pugno nello stomaco, apre una bella finestra di domande sulla concezione umana del futuro. Tanto forte che, qualcuno, ha deciso di farci (“Blade Runner”, 1982) e rifarci (“Blade Runner 2049”, 2018) un film.
Pagina dopo pagina fa galleggiare, senza che manco te ne rendi conto, interrogativi densi, esistenziali, attuali ancora oggi quando proviamo un certo fastidio, almeno un tantinello, se qualcuno ci chiede del futuro.
La storia di per sé è abbastanza semplice, si consuma in una sola intera giornata: dalla mattina all’alba del giorno dopo.
Rick Deckard è un cacciatore di teste, o meglio, “ritira” (= “elimina”) androidi difettosi che sono scappati ai loro padroni umani e, ironia, si vogliono a tutti i costi far passare per umani. E date alcune somiglianze, estetiche, ci riescono pure. Se non fosse che Deckard, li stana grazie a un divertente “test empatico” capace, seppur con qualche cilecca, di distinguere un androide da un umano.
Sua moglie Inran, appena sveglia, decide di non “impostare un programma”, ovvero di non usare il “modulatore di emozioni” per avviare la propria giornata per lasciarsi sprofondare in un’oziosa depressione.
Sullo sfondo il desiderio di possedere un animale vero, oltre a quello “finto”, una pecora elettrica, che ha già perché, sottile sottile nella storia, “chiunque dovrebbe possedere un animale per sentirsi meno solo”.
Deckart alla fine si compra un animale vero. Spende un occhio della fronte ma ce la fa grazie alle taglie degli androidi “ritirati”. Ma inciampa in qualcosa che lo mette, veramente, in crisi: mentre da la caccia alle macchine impazzite si innamora di una ragazza androide. Ci va a letto e siccome, dopotutto, è umano, fatto di sentimenti e di emozioni, non riuscirà più a guardare gli androidi senza provare una certa compassione. Insomma, forse, dopo non potrà più fare lo stesso mestiere.
Alla fine della storia, Deckard torna a casa e si addormenta e nell’istante esatto in cui inizia a ronfare si aprono come finestre, in chi legge, una serie di domande: che significa essere umani? Come sarà il nostro futuro? Staremo meglio o peggio? Che faremo coi robot?
Domande a cui lo stesso romanzo, tra le righe, forse, offre qualche risposta. Nell’amore verso un androide, così come nel desiderio di possedere una creatura vivente e vera, o, anche, nell’interrogarsi sulla cosa giusta da fare, c’è molto di umano anzi, tutto. Siamo fatti di questo. Di ragioni che non seguono il calcolo, la matematica, la razionalità del costo e beneficio. E che danno un senso, alla fine, a tutto quello che ci circonda.
Siamo piccolezza e grandezza allo stesso tempo.
Ecco perché anche l’innovazione e la tecnologia non possono rappresentare degli ostacoli sul nostro futuro. Sono strumenti e, sempre, come tali vanno considerati. Senza che, per fanatismo, diventino fini a sé stessi. Il lavoro dei robot non potrà cancellare quello degli umani a patto che questi rimangano quello che sono: umani, appunto. Con tutti i pregi e i difetti.
E quella paura che spesso, pure senza farci caso, avvertiamo. Quella sottile sensazione di disagio, anche lieve, che appare quando immaginiamo il futuro non è niente altro se non una proiezione.
Aldilà di necessarie e fondamentali domande che ci dobbiamo porre sempre sul futuro, su quanto saremo capaci di rimanere umani, la paura del futuro e del progresso, molte volte, è la rappresentazione della nostra paura di non essere capaci a governare e, se necessario, frenare. Di non essere in grado di controllare l’elemento meno controllabile al mondo.
La nostra paura, tutta umana, di non esser capaci a controllare noi stessi.