“Il bambino con il pigiama a righe” attraverso Fichte: come l’odio pone le sue fondamenta
Considerazioni sulla natura dell’odio nella sua “preparazione”, ovvero tutti quegli avvenimenti che preparano il suo sfociare nel tentativo di identificarne il motivo, attraverso “Il bambino con il pigiama a righe” di John Boyne e i “Discorsi alla nazione tedesca” di Johann Ficthe.
L’inevitabilità nella vita è spesso accostata alla repentinità, un evento risulta di fatti ingestibile quando non c’è possibilità di prepararsi a questo. Posso governare ciò che posso prevedere, ma posso soltanto aver fiducia quando si tratta d’un qualcosa che non è da me stato previsto. Anche l’odio segue questa logica, nel suo violento sfociare e nelle sue manifestazioni che talvolta possono risultare totalmente imprevedibili, con una differenza, il metaforico serpente della più bieca delle umani sensazioni è un oviparo, e cova le sue uova per incredibilmente lunghi lassi di tempo.
L’odio nella sua logica è solo apparentemente uno sfogo determinato da un solo avvenimento privo di contesto che, per quanto possibile, gli dia un senso, ed è attraverso l’esempio della Shoah, dall’ebraico appunto “tempesta” o “calamità”, che è mia intenzione tentare d’individuare quelli che possono essere gli spostamenti atmosferici che hanno causato questa tormenta, nella possibilità di poter condannare un sopruso ancor prima che questo si faccia tale.
IL BAMBINO CON IL PIGIAMA A RIGHE
“Il bambino con il pigiama a righe” è un romanzo di John Boyne, il quale ha ispirato il ben più noto adattamento cinematografico. Tra le numerose opere che trattano della Shoah la scelta di tale romanzo non è casuale ed è fondata su motivo ben preciso: la diversità affrontata da una mente che non è ancora stata influenzata da quei processi mentali che solo il deterioramento del tempo sulla psiche può far nascere, la mente d’un bambino.
Il piccolo Bruno, trasferitosi a causa della promozione del padre, l’ufficiale nazista Ralf, instaurerà un rapporto d’amicizia con Shmuel, bambino ebreo suo coetaneo detenuto in un campo di concentramento non lontano dall’abitazione di Bruno. Tale rapporto culminerà con il “travestimento” in detenuto ebreo da parte di Bruno, atto al fine di poter finalmente incontrare il nuovo amico oltre il cancello che ne delimitava il rapporto, ritrovandosi poi ad essere ucciso assieme all’amico Shmuel.
In un primo momento l’attenzione è da riporre sul rapporto tra i due bambini, privi di quella matrice discriminativa chiaramente non naturale, ma d’artificiale imposizione, e successivamente sull’errore valutativo che porterà alla morte di Bruno.
Il bambino, non ebreo, muore solo ed esclusivamente perché ritenuto tale, facendo effettivamente riflettere su come tale odio si fondi su termini né visibili né effettivamente concreti, o quantomeno sensibilmente riscontrabili.
E’ un odio che si fonda solo ed esclusivamente sul “dover” essere provato, non si sa perché lo si deve provare, non si sa quali sono i motivi, si sa soltanto che lo si deve provare. Ma come può dunque di apparentemente così insensato essere così ben radicato nell’arco di così poco tempo? E’ a questo punto che si vuole smentire quanto precedentemente detto sulla natura dell’odio, o meglio ritrattarne la natura in modo meno scontato e “inevitabile”.
I DISCORSI ALLA NAZIONE TEDESCA
“Reden an die deutscheNation” di Johann Fichte è un’opera all’interno della quale sono raccolti differenti discorsi pronunciato tra il 1807 ed il 1808 nell’Accademia di Berlino. Tale opera è il risultato dell’oppressione e della sconfitta della Prussia da parte di Napoleone Bonaparte, ove Fichte esorta la divisa “nazione tedesca” a riunificarsi, facendo leva sull’idea che solo la razza tedesca possa definirsi come razza pure grazie alla sua lingua e alla sua identità, abbandonando tutte quelle diversità e quei motivi che ne avevano determinato il decadimento.
Tale lettura fu chiaramente intesa in senso particolarmente “patriottico” se non addirittura nazionalista, facendosi iniziatrice d’una serie di scritture la quale interpretazione tendeva sempre più a vertere, soprattutto se erroneamente interpretata, verso quella che sarebbe stata la Germania Nazista. Colpevolizzare ora Nietzsche, Fichte ed Hegel, con la sua “Storia sulla razza ebraica” dove accusa gli ebrei di deicidio, sarebbe di fatti una terribile esagerazione, potremmo in effetti dire che hanno offerto ai tedeschi degli strumenti asettici che sono invece stati utilizzati a scopo infettivo.
I malumori di una nazione che ha subito, man mano radicati tramite queste letture d’alta levatura sociale, hanno portato ad un lento sviluppo d’una idea mai corretta e troppo spesso mal interpretata. Era da anni ormai che i termini d’un possibile sfocio di quel tipo iniziavano a palesarsi, colui che è stato oppresso finirà purtroppo, prima o poi, per opprimere a sua volta.
LA CAPIENZA D’UN VASO VUOTO
La realtà dei fatti è che tali idee dal tono così aspro e che tendono a presentarsi come uniche soluzioni per uscire da uno stato di malessere generale, se mal assimilate e se soprattutto prive d’una controparte possono risultare incredibilmente nocive.
Tale spettro volteggiava già da tempo tra le menti dei cittadini tedeschi, nei salotti e tra gli intellettuali, le quali lentamente hanno iniziato a presentarsi come sempre più legittime, man mano che queste venivano assecondate da più individui, ponendo alla terribile conseguenza d’un mai così freddo silenzio di fronte ad un genocidio. Troppo spesso la Shoah viene trattata come un’avvenimento la quale causa è da trovarsi solo in un odio ingiustificato, perché la memoria serve affinché il peggio non si ripeta, ma a queste vanno associati fatti affinché che questo non si ripeta in termini differenti.
Ogni giorno, ogni ora, veniamo alla conoscenza di fatti, emozioni, che lentamente rischiano di deteriorare un singolo aspetto d’una visione generale, che lentamente cercano un motivo per un malessere che se inizialmente può risultare errato man mano può farsi più veritiero, man mano che a questo s’aggiunge una mente e man mano che ad un malcontento se ne aggiunge un altro.
Che la memoria sia dedicata al rispetto e l’onore delle vittime, ma che non sia un singolo giorno l’anno a fare da filtro a tutta quella disinformazione che ogni giorno s’infiltra nella nostra ragione, che la memoria della più triste pagina della vita umana sia fondamento d’una lettura sempre più generale e meno specifica del vivere, che l’uomo impari presto a far sua la fondamentale differenza che v’è tra un individuo e la sua discendenza, e che le colpe d’un decadimento si basino non su chi non ne fa parte ma su chi l’ha causato, perché quello stesso clima d’odio che si respirava anni fa inizia sempre più ad infiltrarsi nell’odierno ossigeno e, mai come oggi, sarebbe necessaria più capacità valutativa.