Patrimonio dell’umanità: Eduardo, Peppino, come anche Totò, non hanno bisogno di essere riconosciuti dai cognomi.
Quando si pronunciano i loro nomi tutti nel mondo sanno che si tratta di Eduardo di “Filumena Marturano”, o di Peppino di “Pappagone”; e quando si dice Totò, non occorre ricordare che si tratta del Principe De Curtis, il quale fra l’altro ha legami anche con la nostra città.
Quando il 30 dicembre ho visto alla TV la trasmissione del film di Sergio Rubini, i Fratelli De Filippo, già proiettato nelle sale il 13 precedente, sono rimasto alquanto perplesso.
Buono l’autore, il Sergio Rubini, attore, sceneggiatore, regista teatrale e cinematografico, sempre distintosi per le delle sue opere, mai banali.
Eppure con “I Fratelli De Filippo” mi ha inizialmente quasi irritato, e non ho saputo come classificarlo.
Mi interrogavo sul motivo, visto che, tutto sommato, il regista aveva trasferito sullo schermo quella che era stata la vita dei fratelli De Filippo, vittime di una situazione familiare tutt’altro che infrequente, tra uno “zio” (padre naturale) osannato dagli spettatori, quell’Eduardo Scarpetta divenuto milionario per la sua arte, bene interpretato da Giancarlo Giannini, e la madre Luisa De Filippo, la sarta di scena che era stata una delle compagne di Scarpetta, dalla quale aveva avuto Peppino, Titina e Eduardo, che Scarpetta non volle riconoscere, e che nemmeno alla sua morte avrebbe gratificato con qualcosa di materiale, lasciando invece i suoi beni, cospicui, al figli0 Vincenzo, che lo avrebbe sostituito come capocomico della Compagnia “Scarpettiana”, personaggio pure bene interpretato da Biagio Izzo, il quale comunque sarebbe rimasto legato ai tre fratellastri.
Un poco alla volta, rimuginandoci su, ho dato una spiegazione della mia iniziale perplessità, tant’è che mi sono portato avanti queste considerazioni per tanti giorni, il tempo di metabolizzare un’opera che inizialmente mi ha quasi irritato, perché evidentemente mi aspettavo qualcos’altro.
Ed ho dovuto faticare per capire cosa fosse capitato, perché è evidente che, quanto a bravura, ai tre attori che hanno impersonato i tre De Filippo, Anna Ferraioli Ravel (Titina), Mario Autore (Eduardo) e Domenico Pinelli (Peppino), non può essere mossa alcuna critica negativa, e nemmeno agli altri.
Ma allora, mi sono chiesto, perché inizialmente il film ha suscitato non poche perplessità?
La storia che Rubini racconta è semplice.
All’inizio del Novecento e i tre fratelli Peppino, Titina ed Eduardo vivono con la bella e giovane madre, Luisa De Filippo. In famiglia un padre non c’è, o meglio si nasconde nei panni dello “zio” Eduardo Scarpetta, il più famoso, ricco e acclamato attore e drammaturgo del suo tempo.
Scarpetta, pur non riconoscendo i tre figli naturali, li ha introdotti fin da bambini nel mondo del teatro e alla sua morte del grande attore, i figli legittimi si spartiscono la sua eredità, mentre a Titina, Eduardo e Peppino non spetta nulla.
Ma ai tre giovani lo “zio” Scarpetta ha trasmesso un dono speciale, il suo grande talento, che invece non è toccato al figlio legittimo Vincenzo, anche lui attore e drammaturgo, diventato titolare della compagnia paterna.
Il riscatto dalla dolorosa storia familiare passa per la formazione del “trio” De Filippo, sogno accarezzato per anni da Eduardo e dai suoi fratelli che finalmente sta per essere realizzato, superando difficoltà e conflitti.
Quella dei De Filippo è la storia di una ferita familiare che si trasforma in arte, di tre giovani, che, unendo le forze, danno vita a un modo del tutto nuovo di raccontare la realtà con uno sguardo che arriva fino al futuro.
Ma tra essi nasce un conflitto; lasciando da parte Titina, che in sostanza è stata per i fratelli poco più di una “spalla” (la sua Filumena non mi ha mai c onvinto), tra Peppino ed Eduardo il teatro viene visto da due punti di vista opposti; il primo si rifà, e rimane fedele, alla tradizione comica e burlesca e quasi clownesca partenopea, mentre Eduardo si orienta già dall’inizio verso la problematica esistenziale di Luigi Pirandello, del cui teatro è affascinato.
Spinge il fratello Peppino e la sorella ad accompagnarlo a Milano, dove è stato scritturato da una compagnia teatrale, e qui già sorgono i primi contrasti.
Ma l’esperienza milanese non soddisfa soddisfa Eduardo, che si spinge sempre più verso il teatro “serio”, quello pirandelliano.
Il sogno di Eduardo è di creare un nuovo tipo di teatro lontano da quello scarpettiano, il quale, più che mettere in ridicolo la società napoletana, sia in grado di evidenziarne anche i lati romantici e tragici, in modo da indurre il pubblico a pensare e ridere contemporaneamente.
E questa sarà la strada che Eduardo percorrerà, ammantando le problematiche sociali ed esistenziali di quella bonomia tutta partenopea che egli ha saputo descrivere così bene in tutte le sue commedie, specialmente quelle principali che lo hanno reso noto nel mondo.
L’opera più nota di Eduardo è certamente “Filumena Marturano” che è stata interpretata in tante versioni da parte di una miriade di attori, partenopei e non, che l’hanno resa in varie versioni, sui palcoscenici e nelle sale cinematografiche.
Ricordo, tra le tante, quella messa in scena dall’attore e regista Salernitano Sandro Nisivoccia, deceduto da qualche giorno, insieme alla splendida Regina Senatore: non c’è chi non ricordi la scena finale, quella che riepiloga la complicata vita di “Filumena”, che è vissuta derubando il farfallone compagno “Domenico Soriano”, il quale, assorbito dalle continue avventure galanti, non si è mai accorto che donna Filumena ha tre figli che ha cresciuto e fatto studiare grazie alle sue disponibilità finanziarie.
Ma Filumena alla fine si rende conto che non le basta più averli sistemati, vuole per essi un cognome, e l’unico che può darglielo è il compagno che non si decide a sposarla, e architetta la finta morte e estorce il matrimonio.
La storia è nota, uno solo è figlio di Domenico, ma lei non rivelerà mai chi è dei tre, e Domenico, alla fine, avrà la soddisfazione e la commozione di essere chiamato “papà” da tutti i tre; ed è solo allora che Filumena scoppierà in lagrime, e si libererà dei pesante passato esplodendo nel liberatorio “Mimì sto chiagnenno, quant’è bello chiagnere”.
Quella scena, vista innumerevoli volte, interpretata da tante attrici, coinvolse talmente Regina Senatore che una sera fu totalmente presa da piangere realmente sulla scena.
C’è un parallelismo tra la vita vera dei De Filippo e Filumena Marturano, data dai tre fratelli che si possono ben paragonare ai tre figli di Filumena; i primi che non hanno mai avuto un padre, non si sa quanto cercato, e i tre figli di Filumena che probabilmente non hanno mai cercato un padre, ma che se lo ritrovano grazie alla madre.
Eduardo ha ricevuto in vita innumerevoli riconoscimenti, in Italia e all’estero: =Cavaliere della Legion d’onore, 1953 =Senatore a vita della Repubblica Italiana, 1981 =Laurea Honoris Causa in Lettere, University of Birmingham, 1977 =Laurea Honoris Causa in Lettere, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 1980 =Ambrogino d’oro e cittadinanza onoraria di Milano =Cittadinanza onoraria di Mola di Bari =Premio Internazionale Feltrinelli dell’Accademia Nazionale dei Lincei di Roma, 1972 =Intitolazione di “Piazza Eduardo De Filippo” a Napoli, antistante al Teatro San Ferdinando =Cittadinanza onoraria di Velletri con una strada intitolata all’artista.
Ma il suo livello artistico come scrittore e drammaturgo avrebbe meritato, a mio avviso, qualcosa di più.
Non capisco perché’ il grande Eduardo, che ha inventato l’autentico teatro drammatico napoletano, sia pure camuffato da “teatro comico”, nessuno abbia mai pensato di proporlo per il premio Nobel. E’ stato proposto per il giullare Dario Fo, che lo ha pure avuto, ma, mi sia concesso il paragone, tra i due non esiste paragone, e non lo dico per becero campanilismo.
Probabilmente il maggior merito di Sergio Rubini, con il suo recente film, è proprio quello di aver riportato alla ribalta i tre fratelli, dei quali Eduardo costituisce la punta di diamante.