scritto da Fabrizio Prisco - 11 Maggio 2019 08:31

100X100 Cavese di Fabrizio Prisco: Antonio Schetter, la freccia biancoblu

foto Gaetano Guida

Mentre chiacchiero con Antonio Schetter, mi vengono in mente tanti momenti del recente passato della nostra Cavese. Molte gioie, ma anche qualche delusione cocente. D’altra parte, con 204 presenze e 28 gol, l’esterno offensivo è uno dei calciatori che ha indossato di più la maglia biancoblù nei suoi cento anni di storia.

Acquistato dalla Viribus Unitis nell’estate del 2003, dopo la promozione in C/2 conquistata dalla squadra di Mario Somma, Schetter è rimasto a Cava per sette stagioni, fino al 2011, con un’unica parentesi: l’annata 2007/2008 vissuta in serie B in quel di Messina. Ha al suo attivo una promozione in C/1, e una Supercoppa di C/2. I tifosi lo chiamavano “Pavel”, come Nedved, perché sulla fascia era una freccia, un motorino instancabile, e non si fermava mai, proprio come il biondo centrocampista della Juve. Ha segnato il gol salvezza a Rutigliano che ci fece restare in C/2 nel 2004, ha siglato il gol che ci permise l’anno dopo di eliminare la Juve Stabia nella semifinale play off e che ci regalò la finalissima col Gela, e ha realizzato la rete del temporaneo 2-1 a Foggia nel 2007, nella gara d’andata della maledetta doppia sfida play off che avrebbe potuto spalancarci le porte della B, e che invece ci fece piangere lacrime amare.

Gli ultimi gol con la casacca aquilotta Schetter li ha rifilati al Benevento di Galderisi in un derby casalingo che ci vide soccombere per 3-2. Era il 17 aprile del 2011: con i sanniti Schetter raggiungeva il traguardo delle 200 presenze in biancoblù e venne premiato con una targa ad inizio partita. Era quella la triste Cavese di Spatola e Maglione, che a fine campionato sarebbe sprofondata tra i dilettanti, per poi sparire dai radar del calcio per motivi economici. Antonio era il capitano di una squadra ormai spenta e non ha dimenticato i musi lunghi a fine partita negli spogliatoi dopo lo sciagurato pareggio col Foligno. Da quel momento Schetter ha giocato per altri cinque anni, sempre in Lega Pro, prima di appendere le scarpette al chiodo nel 2016.

Nato a Napoli il 23 giugno 1982, sposato con Tonia dal 2008 e padre di due splendidi bambini, Aurora e Ciro, Antonio oggi fa il procuratore sportivo, è rimasto legatissimo alla Cavese e viene spesso al Lamberti. Collabora con Claudio Parlato, e cura gli interessi di una trentina di assistiti, tra cui i nostri Bisogno e Sainz Maza. Con lui si parla di calcio sempre in maniera molto piacevole. Apriamo insieme a Schetter il libro dei ricordi. Non ce ne pentiremo.

«Cava mi è rimasta nel cuore – confida Antonio Schetter – sono arrivato poco più che ragazzino e me ne sono andato alle soglie dei trent’anni con un bagaglio importantissimo di successi e nello stesso tempo di dolore per la scomparsa di Catello e per alcune delusioni tremende maturate sul campo. Sette anni non si dimenticano. Sono rimasto un tifoso della Cavese: ancora oggi quando non vengo allo stadio, per motivi di lavoro, il primo risultato che vado a vedere sullo smartphone è quello degli aquilotti.»

Riavvolgiamo il nastro, prima di occuparci del binomio Schetter-Cavese. Come hai cominciato a giocare a calcio?

«Ho iniziato con la Pro Calcio Napoli di Bruno e Mario Di Lauro. Poi ho esordito in serie D con la Sangiuseppese. Avevo 17 anni. Nel 2001 ho fatto il ritiro con l’Empoli di Silvio Baldini: mi allenavo con la prima squadra e poi giocavo con la Primavera. Prima della fine dell’anno sono tornato con la Sangiuseppese, ma è stata un’esperienza bellissima.»

Al termine di quel campionato l’Empoli di Baldini si classifica al quarto posto in serie B e viene promosso in serie A. I toscani sono fortissimi e hanno in organico gente come Di Natale, Rocchi, Maccarone e Tavano. Schetter studia da esterno offensivo e cerca di rubare a quei mostri il maggior numero di segreti.

«Nonostante non abbia mai esordito in B, mi consideravano uno di loro. Ancora oggi, quando incontro qualcuno di quella squadra, ci salutiamo con estrema cordialità. Il più forte era Totò Di Natale, non c’è dubbio. Vedeva la porta come nessun altro e l’ha dimostrato nel corso della sua carriera. Faceva sempre gol, persino in allenamento la buttava dentro con una continuità impressionante. Ma anche Tavano mi sbalordiva ogni volta perché non riuscivi mai a togliergli la palla, la proteggeva e sapeva rendersi pericoloso come pochi. Con lui un difensore non dormiva mai sonni tranquilli, era costantemente in apprensione. Baldini poi era straordinario. Sul campo era un tipo tosto, non guardava in faccia a nessuno, era un grande insegnante di calcio. Fuori dal campo però era una persona tranquillissima, amava andare a caccia con gli amici. La forza di quell’Empoli era il gruppo ed era merito suo.»

Dopo aver accarezzato il sogno della B, Antonio disputa un altro anno e mezzo in D con le maglie di Sangiuseppese e Viribus Unitis. Con la compagine di Somma Vesuviana si mette in luce come uno dei migliori talenti del campionato: in 27 presenze timbra 7 reti. Nell’estate del 2003 arriva la chiamata della neopromossa Cavese e per Schetter si aprono finalmente le porte del calcio professionistico. Come nasce la trattativa?

«In quel momento il mio procuratore era Nicola Dionisio. Mi propose la Cavese e io accettai subito. Il presidente Della Monica ebbe buone referenze su di me da Vittorio Belotti che mi aveva conosciuto e allenato a San Giuseppe Vesuviano. Firmai un biennale. Fu una stagione travagliata, non giocai tantissimo. Ci salvammo solo all’ultima giornata, grazie a un mio gol a Rutigliano. La società era contestata, la squadra non era male, ma non riuscivamo ad essere incisivi come volevamo. Si poteva fare sicuramente di più.»
Nel suo primo anno a Cava Schetter viene allenato prima da Massimo Silva, poi da Ezio Castellucci, ma i risultati, anche con il cambio tecnico non migliorano.

«Silva mi vedeva seconda punta alle spalle di Scichilone, ma all’occorrenza ho fatto anche l’esterno del 4-4-2. Con Castellucci ho fatto l’attaccante, ma sono stato impiegato sulla fascia anche da terzino sinistro. Mi sono dovuto adattare. I problemi comunque non erano solo di natura tattica. A gennaio con l’arrivo di Luca Leone ci rinforzammo a centrocampo, ma mancava sempre qualcosina e le contestazioni del pubblico alla proprietà non aiutavano.»

Con il gol di Schetter a Rutigliano la Cavese ottiene una sofferta salvezza all’ultima giornata. Stanco dei malumori della piazza, Antonio Della Monica lascia e cede il club a Ottavio Cutillo. Nella costruzione della squadra l’imprenditore di Candida si affida proprio a Nicola Dionisio e a Salvatore Campilongo, il tecnico che aveva regalato la salvezza in D al suo Ariano Irpino. Per una serie di circostanze fortuite si creano così le basi per un triennio fantastico, in cui Antonio sarà uno dei protagonisti assoluti.

«Il fatto che Dionisio fosse diventato il nuovo direttore sportivo della Cavese fu determinante per il proseguo della mia carriera. Decisi di rimanere a Cava senza indugio e mi accorsi immediatamente che il vento stava cambiando. L’estate, in verità, fu abbastanza movimentata. Il passaggio delle quote avvenne nell’ultimo giorno utile, le notizie ci arrivavano frammentarie ed eravamo preoccupati. Fummo riconfermati in pochi: io, Tony D’Amico, Scichilone e Abate. Arrivarono tanti giovani, qualche elemento d’esperienza come Tatomir, Pagano e Mancinelli. Nessuno ci considerava tra i favoriti per la vittoria finale, anzi. Ma fin dai primi giorni del ritiro mi accorsi subito che il gruppo aveva una fame incredibile e che avremmo potuto fare qualcosa di importante.»

Come fu l’impatto di Campilongo all’interno dello spogliatoio?
«Sasà aveva una voglia di vincere straordinaria e la trasmetteva a tutti. Parlava tantissimo e sapeva stare allo scherzo, ma in campo pretendeva sempre il massimo. Gli allenamenti erano durissimi, noi lo seguivamo in silenzio e andavamo a tremila. All’inizio non avevamo neanche tutto il materiale tecnico e partimmo per il ritiro di Rivisondoli senza il magazziniere, perché Cutillo litigò con Alfredo Codetti e dovemmo caricare noi stessi insieme al presidente gli attrezzi da lavoro e i palloni sul pullman. Poi arrivò il nuovo magazziniere Mumù, che aveva lavorato col Savoia e che era un personaggio incredibile. Non ricordo un solo giorno in cui non gli abbiamo organizzato uno scherzo o un gavettone. Il clima tra noi era bellissimo, eravamo una famiglia. L’albergo era spartano, dormivamo in delle camerate, non c’erano le stanze singole. Io ero con Galizia, Scichilone, Placentino e Marchano. Catello stava con Cipriani, ma spesso veniva da noi. Sentivamo musica napoletana a tutto volume e organizzavamo tornei di play station per passare il tempo. La sera, dopo cena, stavamo sempre insieme. Tutte queste difficoltà ci unirono ancora di più. Cominciammo a giocare per divertirci, e i risultati vennero così, quasi senza rendercene conto. Il nostro segreto era la spensieratezza.»

La prima Cavese di Campilongo è senza dubbio la più spettacolare. Antonio diviene subito titolare inamovibile di un reparto offensivo che garantisce forza e potenza con Scichilone, e freschezza e imprevedibilità grazie al moto perpetuo e al dinamismo di Galizia, Placentino e dello stesso Schetter. Gli aquilotti partono fortissimo e si ritrovano nelle zone alte della classifica. A dicembre le due vittorie con Manfredonia e Nocerina lanciano i biancoblù al primo posto. Sembra l’inizio di una favola.

«Giocavamo sempre a viso aperto, correvamo come dannati e mantenevamo ritmi altissimi. I nostri avversari non ci capivano nulla. La gara con il Manfredonia fu un capolavoro. Il mister la preparò benissimo. Loro sulla carta erano molto più forti di noi. Gente come Sassanelli, Trinchera, Piccioni, Brutto, Mitri e Vadacca erano un lusso per la categoria. Ma quel giorno disputammo la partita perfetta, li martellammo dall’inizio alla fine e vincemmo 2-0. Campilongo ci aveva detto di pensare solo a noi stessi e aveva ragione. Il pubblico era impazzito. Conservo un ricordo fantastico anche della vittoria con la Nocerina. Quella forse fu una delle poche gare in cui avvertimmo molto la tensione. L’incontro era sentito, si trattava di un derby e nessuno voleva perdere. Scendemmo in pullman a Nocera e le strade erano piene di forze dell’ordine, sembrava di essere in guerra o nel film “Palermo Milano – Solo andata”. Il primo tempo infatti non giocammo bene come al solito. Ci pensò Catello nella ripresa a sbloccarci con quel gol fantastico. Saltò quasi due metri per colpire di testa, col ginocchio arrivò quasi sulla testa del difensore per anticipare l’uscita del portiere. Ho ancora nelle orecchie il boato dei tifosi. Catello correva verso di loro, io lo inseguivo ed ero felice come se avessi segnato. Fu un’emozione indescrivibile.»

Nel girone di ritorno però la vostra marcia improvvisamente si arresta. Che cosa accadde?
«Sicuramente pagammo il fatto di avere una rosa ristretta. Cutillo non ci faceva mancare nulla. Aveva una parola buona per tutti, era una specie di padre o di fratello maggiore per noi. Il problema è che alla lunga il fatto di poter contare solo su dodici o tredici elementi ci penalizzò. Quando dopo le sconfitte con Juve Stabia e Manfredonia iniziammo a perdere fiducia e posizioni in classifica, il mister fu bravissimo a capire che forse era il caso di concentrarsi sui play off per prepararli al meglio.»

L’intuizione di Campilongo è decisiva. La Cavese balbettante degli ultimi tre mesi, che termina in affanno il girone di ritorno, torna ad essere competitiva negli spareggi promozione. Nella doppia sfida con la Juve Stabia Sasà compie un capolavoro tattico ed imbriglia le vespe, arretrando Schetter a centrocampo. All’andata a Sora la gara viene decisa da un perfido diagonale del folletto napoletano. Antonio gioca la partita con una casacca d’allenamento, senza sponsor e con il numero fissato con lo scotch. Qualche giorno prima Mumù aveva danneggiato le divise a causa di un problema durante il lavaggio. Nel ritorno a Frosinone la Juve Stabia non sfonda. La Cavese è in finale contro il Gela. Purtroppo però il sogno svanisce sul calcio di rigore fallito da Placentino e respinto da Morello. In Sicilia gli aquilotti vengono sconfitti ai supplementari, ma raccolgono ugualmente gli applausi della gente.

«Come per la partita con la Nocerina il doppio derby con la Juve Stabia e la finale col Gela furono caratterizzate da una notevole tensione. Nessuno riusciva a dormire prima delle partite, neanche il capitano Tatomir, che era solitamente uno tranquillo. Io andavo in bagno di continuo. Per fortuna che Galizia ci rincuorava con la sua allegria. Catello teneva tutto dentro. Tra di noi era quello dotato di maggiore personalità e aveva delle qualità mentali notevoli. Non aveva gradito le critiche dopo la sconfitta casalinga con la Juve Stabia di aprile, e dopo la semifinale di ritorno si sciolse in un pianto liberatorio, tra le braccia di Cutillo. Ma non furono lacrime di rabbia, assolutamente: fu un pianto di gioia. Con il Gela se Placentino avesse realizzato il rigore, forse avremmo vinto il campionato con un anno di anticipo. In Sicilia abbiamo dato tutto, anche in nove contro undici. In quel momento non pensavamo all’arbitro che ci stava penalizzando con le due espulsioni. Gli applausi dei tifosi, nonostante la sconfitta, ci riempirono il cuore.»

Dopo la sconfitta di Gela, Cutillo lascia. Torna in sella Antonio Della Monica con i suoi vecchi soci. Schetter, che si è messo in mostra come uno degli elementi più interessanti della categoria, è al centro di un intreccio di mercato. Pare che addirittura il Napoli sia interessato a lui. Ma alla fine Antonio resta a Cava. E contribuisce a riportare la Cavese in C/1 dopo quasi trent’anni.
‹‹Con il passaggio delle quote da Cutillo a Della Monica il mio cartellino doveva rimanere nelle mani di Cutillo. Ma ci fu un problema, non si misero d’accordo, e fui felice di restare. In estate la squadra venne rinforzata nei ruoli cardine. Con l’arrivo di gente come Arno, Nocerino e Aquino avevamo alzato sicuramente il livello qualitativo della squadra, anche in termini di esperienza. Rispetto al primo anno eravamo meno belli e spettacolari, ma più concreti. Sapevamo gestire meglio le partite. Dalla vittoria in trasferta con il Sassuolo a dicembre è stato un crescendo continuo. Abbiamo meritato la promozione. Anche se col senno di poi, era meglio non vincere col Sassuolo quel maledetto 15 aprile. Forse Catello sarebbe ancora con noi.»

Sono passati tredici anni dal tragico schianto che ci ha portato via il nostro Leone. Antonio ricostruisce per l’ennesima volta quei momenti.
«Volevamo vincere a tutti i costi e festeggiare quel giorno il ritorno in C/1. È stata una partita strana. Il Sassuolo ci ha dato filo da torcere ed è passato in vantaggio per un errore nostro. Ricordo nitidamente le urla nello spogliatoio tra il primo e il secondo tempo tra Catello, Mancinelli e Campilongo. Si discuteva del gol preso e di chi aveva sbagliato nei movimenti difensivi. Catello era fuori di sé. Nella ripresa ci abbiamo messo una cattiveria incredibile per rimontare. Io ho fallito un’occasione gigantesca prima di segnare il gol del pareggio. Aquino mi ha dato una palla d’oro, ma ho tirato addosso al portiere. Fortunatamente dopo poco su un lancio di Catello si è aperto un buco davanti a me, mi sono infilato e ho battuto il numero uno del Sassuolo di prepotenza col destro, che non era certamente il mio piede. Ho pensato subito a mio nonno Francesco, e gli ho dedicato il gol. Quando Peppe ha segnato il 2-1 abbiamo realizzato che era fatta. La festa è stata bellissima. Se chiudo gli occhi mi sembra di essere ancora davanti al Bar di Terenzio. Erano quasi le tre di notte. Insieme con me e Catello erano rimasti Tony D’Amico e Volpecina, c’erano i ragazzi della curva e altri amici. Si parlava del più e del meno, Catello era sul motorino di Mirko Carotenuto, suo compagno di scuola dei tempi del Ragioneria. Le parole di Tony che chiede a Catello di andare a dormire a casa sua mi risuonano nella testa, così come la risposta di Catello: voglio andare a casa mia, domani è Pasqua e mi voglio svegliare con i miei. Io dopo qualche minuto mi sono messo in macchina, ho salutato tutti e sono tornato a Napoli. Alle 6.30 vengo svegliato di soprassalto da una telefonata. Era il mister che mi dava la brutta notizia. Non ci volevo credere, non poteva essere vero.»

Come avete fatto ad andare avanti?
«Non è stato semplice, puoi immaginare. I primi tempi ci trovavamo negli spogliatoi e scoppiavamo a piangere. Non riuscivamo a parlare. Eravamo tutti con la testa bassa. Abbiamo perso un amico, un fratello. Poi alla fine del campionato abbiamo deciso di restare per lui, tutti insieme, cominciando da Campilongo. Il mister mi ha chiesto se me la sentivo di provare a fare qualcosa di bello anche in C/1 nel nome di Catello. Non ci ho pensato un secondo. Mister, se resti tu rimango anche io, gli ho risposto. Sapete tutti come è andata. Abbiamo sfiorato un’impresa storica, siamo arrivati a pochi istanti dalla finale play off per andare in B. E ancora una volta nessuno se l’aspettava.»

Al primo anno di C/1 la Cavese è la sorpresa del campionato. Dà spettacolo, anche al cospetto di squadre molto più forti sulla carta. In alcune partite il 4-3-3 di Campilongo e la rabbia agonistica dei suoi ragazzi sono un’arma devastante. Peccato solo che il gol di Mastronunzio abbia rovinato un’impresa che poteva entrare nella storia.

«In città si respirava un’aria fantastica, tra squadra, dirigenza e pubblico si era creata un’unione d’intenti eccezionale. Noi eravamo attaccati alla maglia e ci sentivamo gratificati da tutto quest’amore. Lo stadio era pieno, e i dirigenti erano sempre presenti. Antonio Fariello faceva da collante con la proprietà, ma tutti erano fondamentali in quel gruppo, anche Elio De Sio che ogni settimana organizzava delle fantastiche cene. Persino uno molto schivo come Ercolano si era calato nell’ambiente: dopo i primi mesi d’ambientamento, Sergio ha lavorato con una certa continuità e dal secondo anno ci ha dato una grandissima mano. In alcune partite siamo stati mostruosi. Come ad esempio a Gallipoli, oppure in casa con Avellino e Ravenna. Nella doppia sfida col Foggia siamo stati particolarmente sfortunati. Gli episodi non sono stati dalla nostra parte. All’andata vincevamo 2-1 ad un quarto d’ora dalla fine, nonostante l’espulsione di Nocerino. Nessuno poteva credere che la partita sarebbe finita 5-2. Sul 3-2 o sul 4-2, pensando al ritorno, ci saremmo dovuti accontentare, ed invece ci siamo scoperti. Avremmo dovuto gestire meglio la gara. Sul match di ritorno cosa posso dirti? Era fatta, eravamo sul 3-0, c’era un fallo laterale per noi e il pubblico era impazzito. Ce la possiamo prendere solo col caso, col destino, con la sfortuna. Certo, Perna avrebbe potuto mettersi sulla palla e perdere tempo, la gente era in campo e voleva festeggiare, nessuno si aspettava quell’epilogo. Il Foggia ha buttato avanti la sfera con la forza della disperazione, Mastronunzio si è infilato tra Sportillo e Mancinelli e ci ha beffato. Ci siamo sentiti morire un’altra volta. Non riesco a dimenticare la bolgia del Lamberti, il tifo coi fischietti e il silenzio assordante dopo il gol del 3-1. Io sono crollato a terra, come tanti miei compagni. Meritavamo noi la finale.»

Smaltita la delusione, le strade di Campilongo e Schetter si dividono dopo tre anni. Entrambi lasciano la Cavese. Il primo, a sorpresa, va al Foggia e si porta pure Tony D’Amico. Il secondo approda al Messina di Di Costanzo. Un affare che si aggira sui seicento milioni per la metà del cartellino, con il diritto di riscatto già fissato a favore dei peloritani. Antonio finalmente è in serie B. Gioca 30 partite e disputa una buona stagione. Nel 2008 vive lontano da casa e sposa anche la sua Tonia. Peccato che a fine stagione il Messina fallisca. Per lui le porte della cadetteria si chiudono troppo presto: in accordo con il suo nuovo procuratore Paolo Palermo decide così di tornare a Cava dove resta per altri tre anni.

«A Messina mi sono trovato bene, mi sono inserito subito nell’ambiente e ho legato con i nuovi compagni. Il campionato di serie B è sicuramente di un’altra categoria rispetto alla C, ma sono contento di quello che ho fatto con la maglia giallorossa. Purtroppo nel corso della stagione la situazione finanziaria del club è diventata insostenibile e così in estate è arrivato il fallimento. Avevo qualche altra richiesta da Pisa e Grosseto, ma ho deciso di tornare a Cava e ho firmato un contratto triennale. Con la maglia biancoblù ho iniziato così un altro ciclo che mi ha portato ad indossare la fascia di capitano, ma durante il quale anche nella valle metelliana si è iniziato a respirare un’aria di crisi che non mi aspettavo.»

Quando Schetter inizia la sua quinta stagione in biancoblù, sulla panchina della Cavese siede Andrea Camplone. La squadra per i primi 6 mesi gioca alla grande e accarezza l’idea di entrare nuovamente nei play off. Il sogno svanisce in uno strano finale di campionato. Sarà l’inizio di una lenta discesa. L’anno dopo si parte con Maurizi, e con una triade al timone della società, composta da Lombardi, Della Monica e Casillo. La squadra stenta, quindi con l’esonero dell’ex tecnico della Scafatese e l’ingaggio di Stringara, la Cavese centra la salvezza non senza qualche patema. Sulla piazza si rivede anche Peppe Pavone. Giunto come consulente di Casillo, l’ex capitano della B a gennaio lima la squadra con qualche acquisto di spessore e porta a Cava un giovanissimo Lorenzo Insigne, in prestito dalle giovanili del Napoli.

«Con Camplone abbiamo subito legato. Il mister si sentiva uno di noi, si allenava con noi, abbiamo instaurato un bel rapporto. All’inizio tutto funzionava per il meglio. Poi abbiamo iniziato a risentire dei problemi societari e la squadra non è stata più tranquilla. Il gioco di Camplone era diverso rispetto a quello di Campilongo. Era un 4-3-3 meno aggressivo e spregiudicato: il modulo era più lineare e molte volte si cercava l‘uno contro uno. Fino a marzo siamo stati competitivi, poi siamo calati. Il problema ad un certo punto è diventato mentale. La sconfitta in casa con il Sorrento e la rissa finale con le numerose squalifiche ci hanno tagliato le gambe, così come il pareggio in casa con la Ternana e la sconfitta di Benevento. Abbiamo chiuso al sesto posto e non siamo entrati nei play off. L’anno dopo la crisi ha iniziato a farsi sentire ed è aumentata la confusione all’interno dello spogliatoio. Maurizi probabilmente era inesperto per la categoria e i risultati non gli hanno dato ragione. Le cose sono migliorate con Stringara: io e Ciccio Favasuli abbiamo instaurato col nuovo mister un rapporto fantastico sia dal punto di vista umano che da quello tecnico. Abbiamo disputato un ottimo girone di ritorno e ci siamo salvati. Anzi, se non avessimo perso in casa col Portogruaro, forse avremmo potuto anche ambire a qualcosa di più. Pavone da gennaio ha fatto un buon lavoro. Il direttore è uomo di campo, fa poche parole e molti fatti. Quando ha portato Insigne non lo conoscevamo, si vedeva che aveva qualità nel dribbling, che aveva un buon controllo di palla, ma non riusciva a essere incisivo. Il ragazzo era molto serio, ma sinceramente non mi aspettavo facesse una carriera del genere. Sono contento per lui, Pavone ci aveva visto lungo.»

Nell’aprile del 2010 il gruppo Cavamarket è sull’orlo del baratro. Nei supermercati Despar in Campania gli scaffali sono vuoti, si parla di un buco finanziario di svariati milioni e di una procedura di mobilità per i 450 dipendenti. Antonio Della Monica è nei guai, anche la Cavese sembra sul punto di crollare come il suo patròn. In estate il crac del club viene scongiurato da un’incredibile colletta dei tifosi. La gestione della società passa nelle mani dell’avvocato Maglione che coinvolge nell’avventura anche l’imprenditore Pino Spatola, ex numero uno del Benevento. La Cavese cambia tre allenatori in panchina: si comincia con Marco Rossi, poi si passa a Mauro Melotti e infine si tenta di salvare il salvabile con Franco Delli Santi. L’annata è particolarmente tribolata e si chiude con la retrocessione sul campo, il 15 maggio 2011 con uno scialbo 2-2 contro il Foligno. A luglio poi un nuovo fallimento cancella per l’ennesima volta il glorioso aquilotto dal calcio professionistico. Schetter, uno dei pochi a salvarsi in un campionato da dimenticare, indossa la fascia di capitano dopo la partenza di Nocerino, gioca 31 partite e segna 6 gol, alcuni di ottima fattura come quello al Foligno nella gara d’andata, quello a Pescara e la doppietta già citata col Benevento. Ma tutto questo non basta a conservare la categoria e a scongiurare guai peggiori.

«Quel campionato per me è una ferita ancora aperta. La colletta dei tifosi fu una cosa fantastica, anche io partecipai con un versamento. È stato commovente vedere bambini che rompevano il proprio salvadanaio e volevano contribuire con pochi spiccioli per salvare la Cavese. Da Maglione tutti ci aspettavamo qualcosa di più, ma la confusione ad un certo punto era enorme. Spatola è stato il meno colpevole della situazione, ci ha rimesso i soldi della fidejussione ed ha provato fino alla fine a salvarci. Tutto quello che ha fatto, lo ha fatto col cuore. Con Marco Rossi almeno avevamo un gioco, Melotti era la persona meno adatta a cercare di darci una scossa, mentre Delli Santi è arrivato troppo tardi per poter incidere. Con il Foligno non siamo riusciti a vincere perché si respirava troppa tensione e non eravamo tranquilli. Con una vittoria avremmo condannato gli umbri alla retrocessione diretta, mentre noi saremmo andati ai play out. Invece non ce l’abbiamo fatta. Lo stadio era pieno, la delusione è stata enorme. Negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia io, Alfano e Cipriani. Eravamo affranti. Dopo tanti sacrifici, proprio noi che eravamo riusciti a riportare la Cavese in C/1, non eravamo stati in grado di compiere il miracolo.»

Il fallimento del sodalizio metelliano sancisce la fine del rapporto tra Schetter e la Cavese. Antonio gioca ancora cinque anni a buon livello e veste le casacche di Barletta, Nocerina, Latina, Ischia, Gubbio, ancora Ischia e Martina Franca. Nel 2016 arriva un’altra chiamata da Cava. Stavolta a cercarlo è il nuovo presidente Campitiello. Ma Antonio rifiuta. Sente che la sua carriera è agli sgoccioli e vuole lasciare un buon ricordo. Decide così di ritirarsi e inizia a fare il procuratore. Segue i giovani talenti e spera di essere ancora protagonista nel mondo del calcio.

«Con Campitiello non me la sono sentita di venire a Cava. Non era questione di soldi: sapevo di non essere più in grado di rendere come ai bei tempi. Ecco perché ho deciso di smettere. Non voglio fare l’allenatore perché un tecnico deve interfacciarsi con dirigenti, calciatori, avversari e mille altre situazioni. Il successo ha tante variabili, non è affatto scontato, anche se lavori sodo. Invece il procuratore dipende solo da se stesso e dal suo intuito. Oggi sono contento di quello che faccio e mi auguro di migliorare ancora tanto. La strada è lunga, ma ho tanto entusiasmo. Ho un ottimo rapporto con il presidente Santoriello, fa bene a puntare sui giovani. Bisogna dargli tempo e fiducia. I risultati non arrivano subito, specialmente se si vuole investire nel vivaio. Ma il futuro del calcio passa attraverso i settori giovanili, soprattutto a livello locale. Auguro alla Cavese ogni bene. Cava è diversa dalle solite piazze, per attaccamento ai colori e per senso di appartenenza. I tifosi hanno una mentalità, una competenza calcistica fuori dal comune. Capiscono il momento, sanno quando devono sostenerti o quando devono stimolarti. Non è da tutti. Cava merita di restare stabilmente nel calcio che conta. E perché no, di riuscire anche a rivivere i fasti di un tempo. Valgono di più 100 Cavesi che 1000 tifosi di altre squadre. Lo dico da sempre. Chi mi conosce sa che non è una sviolinata.»

(fonte Cavese 1919 http://www.cavese1919.it/)

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