CINEMA Non sapevate che eravamo semi: il grido dei contadini nel cortometraggio di Alice Rohrwacher
L’altopiano dell’Alfina, nell’alta Tuscia, territorio laziale, tra Toscana ed Umbria, una terra di confine ed uno scenario contadino oggi umiliato dalle monoculture. Gli alberi di nocciola, tutti uguali, appaiono, in un panorama ripetitivo, come le lapidi di un cimitero di guerra
In una delle tante piattaforme streaming in circolazione, ma anche digitando semplicemente il titolo (Omelia Contadina, 2020), si può trovare una breve produzione artistica, dall’esigua durata di circa 10 minuti.
L’altopiano dell’Alfina, nell’alta Tuscia, territorio laziale, tra Toscana ed Umbria, una terra di confine ed uno scenario contadino oggi umiliato dalle monoculture. Gli alberi di nocciola, tutti uguali, appaiono, in un panorama ripetitivo, come le lapidi di un cimitero di guerra. Ed è proprio da questa suggestione che la regista e sceneggiatrice e l’artista JR decidono di mettere in scena un funerale. Omelia Contadina è il funerale dell’agricoltura contadina, di tutti quei contadini, che in armonia con la natura: «hanno sofferto miseria e povertà ma hanno lasciato al mondo delle bellezze». Nel corto si assiste ad un funerale a tutti gli effetti; le salme sono delle gigantografie (riconoscibile la firma artistica di JR) di due contadine e due contadini che vengono trasportate supine tra i campi, in una processione dove i feretri, senza bara, sono i protagonisti simboli delle esequie della tradizione contadina.
La cerimonia saluta quella classe sociale che ha trovato nella natura sia un’amica che una nemica, a volte condanna e schiavitù, altre liberazione ed autodeterminazione. La regista e l’artista danno, quindi, voce a tutti quei contadini dell’altopiano dell’Alfina che si vedono soffocati da un’agroindustria che rompe quel legame che ha permesso a uomo e natura di convivere e comunicare nei secoli. Omelia Contadina è altresì un inno di speranza che si leva da coloro che hanno il diritto di rappresentare e proteggere il proprio ruolo: «Ci avete seppellito ma non sapevate che eravamo semi».
L’opera si pone implicitamente contro l’industria agroalimentare intensiva e esplicitamente a fianco di un’umanitá lavoratrice, della terra feconda, del sacrificio, di una storia da preservare (o ormai solo da ricordare?).
Prendere consapevolezza di una storia che finisce è acquisire coscienza dell’inutilità di un ruolo prima necessario, di un’esperienza che si dissolve e che ora è tappa di un progresso in cui la distruzione delle risorse, volta all’aumento del profitto, sembra essere l’unica protagonista. Una riflessione questa che trascende il tema dell’agricoltura e che si inserisce in un discorso più ampio: nello scontro tra innovazione e tradizione, in quel conflitto centrale nello sviluppo umano che produce degli scarti, delle pieghe. Ed è anche in ciò che viene buttato, è in ciò che scompare dalla nostra percezione, è nella parte invisibile della piega (in cui è possibile nascondersi e nascondere) che alberga la storia, la storia sotterranea, un motore invisibile e dimentico.
9 minuti e 55 secondi: funerale, omelia e sepoltura delle gigantografie. Una processione che è stata riprodotta anche a Venezia, in acqua, in occasione della presentazione del lavoro alla 77esima mostra del cinema (2020).
Forse dopo aver visto il corto saremo tutti in grado di immaginare delle enormi salme/sagome di contadini sopra ogni monocoltura che scorre nei finestrini.
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