Riforma della giustizia, politicantismo di “caste”
Pretendere dagli uomini delle istituzioni più informazioni fedeli al testo letterale del ddl di riforma e meno supposizioni di derive è un dovere verso la Repubblica, un diritto dei cittadini
Con il secondo passaggio in Senato, l’iter del Disegno di legge di riforma costituzionale dell’Ordinamento giudiziario si avvia verso la fase conclusiva. Si stima che, in mancanza dei due terzi dei voti parlamentari, il referendum confermativo si svolga nella primavera del 2026. Non è previsto quorum, ma è prevedibile il tenore dei temi degli scontri da campagna elettorale.
Se ne colgono anticipazioni dai toni dei discorsi e dalle manifestazioni inscenate dentro e fuori l’aula del Senato: dalla soddisfazione del forzista Zanettis per il “sogno di Berlusconi che diventa realtà per una giustizia giusta” alle accuse rivolte dal pentastellato Roberto Scarpinato al Governo di “farsi scudo dell’icona di Giovanni Falcone, non potendo esibire pubblicamente come spirito guida della riforma Gelli, Berlusconi, Dell’Utri, Previti”. Intervento quest’ultimo richiamato non consono dal Presidente d’Aula di turno Anna Rossomando (PD).
Le esibizioni di cartelli con la copia della Costituzione raffigurata all’ingiù fanno parte di una scenografia ormai consolidata dall’insediamento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, come a voler significare che si stia attraversando nel Paese una fase “autoritaria e pericolosa” (copyright del verde Bonelli). Al lume della vissuta realtà quotidiana di convivenza e dissidenza democratica, si tratta di un linguaggio di politica politicante dietro il quale si nascondono ipocrisie e colpevoli amnesie. Perché nella fattispecie, la necessità di rivisitazione dell’ordinamento giudiziario sono state avvertite durante tutto l’arco dell’era repubblicana. E non è stato un chiodo fisso o cavallo di battaglia soltanto delle forze di centrodestra, ma è stato argomento di riflessione anche a sinistra, nel mondo accademico e della stessa magistratura, soprattutto dopo l’introduzione del processo accusatorio di cui è stato guida ed ispiratore il Ministro Giuliano Vassalli eroe della Resistenza.
“Nessuna mira autoritaria” per il Guardasigilli Carlo Nordio; “tentativo di delegittimare ed asservire la magistratura al Governo” per Elly Schlein; “una Giustizia più trasparente” per la Premier Meloni; preoccupato il Presidente dell’ANM (sindacato dei magistrati) Cesare Parodi perché “la riforma del CSM toglierebbe spazio ai cittadini”. Legittima ciascuna presa di posizione, ci mancherebbe, ma non tutte oggettivamente argomentate in un contesto dí artificiose contrapposizioni tra i due mondi della magistratura e della politica e perciò non tanto di natura culturale o ideologica quanto per interessi strumentali, elettorali o di casta.
Giovanni Falcone, sopra citato come icona dell’antimafia da un ex magistrato nella veste di politico, è stato sostenitore della separazione delle carriere di giudici e requirenti ma anche la figura più osteggiata dalla logica correntizia del CSM, della quale Luca Palamara, ex ANM, ha disvelato meccanismi decisionali e commistioni strategiche o clientelari con il mondo della politica. Radiato dall’ordine giudiziario!
Non radiato Antonio Di Pietro, avendo smesso di indossare la toga per entrare in politica, anch’egli, icona di “mani pulite”, favorevole alla separazione.
L’assetto dei rapporti politica/magistratura a volte incestuoso o prevaricante è un tema datato. Ne ha fatto argomento di una pubblicazione del 1996 Pietro Folena, responsabile del settore giustizia del PdS, denunziando come la frattura degli equilibri abbia di fatto “delegato impropriamente al Pm una funzione di selezione della classe dirigente politica”. Materiale offerto anche dalle cronache odierne.
Resta di attualità la questione di rendere sereno ed indipendente l’esercizio della giurisdizione, che non è stato sempre garantito dal sistema in vigore di formazione del CSM, organo di autogoverno, inquinato dal correntismo, certamente non rassicurante per i cittadini. Sul punto la riforma innesca un percorso di liberazione dalle tentazioni di compromessi, utili per i politicanti e mortificanti per la dignità della magistratura.
Pretendere dagli uomini delle istituzioni più informazioni fedeli al testo letterale del ddl di riforma e meno supposizioni di derive è un dovere verso la Repubblica, un diritto dei cittadini e sarebbe anche un servizio per la credibilità della stessa “casta”. Absit iniuria verbis!







