scritto da Eugenio Ciancimino - 17 Ottobre 2025 18:49

Politica, dalla partitocrazia al nullismo dei partiti

È venuto meno il modo di far politica con le idee, sposando la logica delle ammucchiate e dei social, in cui prevale l’appiattimento sul cerchio magico del leader di turno piuttosto che sul pensiero critico e del discernimento dei valori e dei bisogni

foto Angelo Tortorella

La rappresentanza è fondamento vitale della democrazia e la rarefazione del consenso mina l’autorevolezza degli eletti. Si tratta di un argomento di attualità nel dibattito politico imbastito per un ventennio.

In quest’arco temporale l’astensionismo dalle urne in crescendo ha raggiunto punte nelle recenti consultazioni regionali fino all’ultima delle quali, in Toscana, dove meno di un elettore su due ha ritenuto opportuno di andare a votare. Un fenomeno che rivela sfiducia nel sistema dei partiti in declino come organizzazioni di militanza e consenso, cui la Costituzione (Art. 49) assegna il compito di “determinare la politica nazionale”. Ma il leaderismo, che ha soppiantato una partitocrazia decotta ed inquisita, nel corso di quattro legislature ne ha disarmato gli apparati, lo spirito di aggregazione e la ritualità del confronto dialettico.

È venuto meno il modo di far politica con le idee, sposando la logica delle ammucchiate e dei social, in cui prevale l’appiattimento sul cerchio magico del leader di turno piuttosto che sul pensiero critico e del discernimento dei valori e dei bisogni. Senza i quali le sigle dei partiti in campo si rivelano indistintamente scatole vuote di offerte condivisibili e realistiche. Segnali di riconsiderazioni si avvertono nei giorni successivi agli esiti usciti dalle urne. In atto essi investono il ruolo del Generale Roberto Vannacci in seno alla Lega, il posizionamento del M5S rispetto al PD sollevato da Chiara Appendino e le riserve dell’ala riformista del PD sulla linea più estremista e “testardamente unitaria” portata avanti dalla Segretaria Elly Schlein.

E non mancano veleni nel centrodestra sulle candidature regionali e motivi di inquietudini nei rapporti interni alla coalizione, palesate in diversità di vedute su temi di relazioni internazionali e di responsabilità legislativa in materie di politica economica e finanziaria. Ma, al di là delle sbornie elettoralistiche non si riscontrano apprezzabili lavori di ricerca e di elaborazione di qualità; prevale il tempismo politicante, l’insulto ed il linguaggio rancoroso che alimenta gli spunti dei leoni da tastiera ed inquina la trasparenza dell’informazione, uno dei pilastri della democrazia. Sul punto si configurano responsabilità di attori eletti nelle istituzioni sulla base delle indicazioni, ovvero sia di selezione di fedeltà al leader delle sigle in competizione, favorita da un sistema elettorale che predetermina l’ordine degli eleggendi, sottraendo all’elettore l’esercizio dell’assegnazione della propria preferenza.

Si è determinato un modello di leaderismo all’interno delle singole formazioni, contrassegnate da sigle senza la dicitura partito, tranne PD, in cui contano le caste o specie di dynasty a dispetto delle forme di collegialità praticate nella sorpassata partitocrazia. E ciascuna delle quali in competizione si rende riconoscibile agli occhi degli elettori con l’immagine iconografica del leader piuttosto che su ideali e relative impostazioni programmatiche. Il che rende aggregazioni elettoralistiche incongrue rispetto ad una dialettica politica, presupposto del citato mandato costituzionale.

A fronte di un simil verticismo si comprende la proliferazione di un civismo nei contesti locali distinto dai simulacri dei partiti in campo. Parafrasando Socrate dal Menesseno di Platone si può dire che l’attuale prassi del modo di far e concepire la politica “qualcuno la chiama democrazia, qualcun altro nel modo che gli piace, ma, in realtà, la nostra democrazia è di fatto una aristocrazia (nel nostro caso meglio dire di casta) con il consenso della massa”: è no! Qui è di minoranze.

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